IL PALAZZO LONTANO
In due recentissime occasioni, le Considerazioni finali e gli Stati generali, il governatore Ignazio Visco ha tentato di richiamare l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica sul tema della produttività e in entrambi i casi il suo appello è caduto nel vuoto. Si ha come l’impressione che nella congiuntura eccezionale, che si è aperta con l’epidemia da coronavirus, «produttività» sia ormai considerata una parola malata, da tenere in rigido isolamento.
Eppure il governatore ha proposto uno scenario che dovrebbe considerarsi ampiamente alla portata di un Paese avanzato della ricca Europa: far crescere la produttività dell’1% medio per un decennio per poter generare di conseguenza una crescita del Pil dell’1,5% annuo lungo lo stesso periodo. Il guaio - e insieme la spiegazione dell’assordante silenzio seguito ai richiami della Banca d’italia - è che il governo e le principali forze politiche sono tarate su altri indirizzi, nella migliore delle ipotesi non vanno oltre l’idea di voler sostenere con i trasferimenti europei la domanda e i redditi compromessi dal lockdown. Mettono già in conto però che l’italia non riesca a conciliare la coesione orizzontale della società con la proiezione verticale del suo sistema economico, non abbia chance di mantenere le posizioni nel rango internazionale e di conseguenza a tutti noi non resti che elaborare il lutto. Loro, intanto, si sono portati avanti.
La conduzione e lo stesso palinsesto degli Stati generali in corso a Roma paiono confermare un’interpretazione pessimistica: i punti programmatici sono stati affastellati in un indistinto ed enciclopedico elenco di interventi, il confronto con le parti sociali equivale alla concessione di un diritto di tribuna che mette in secondo piano la reale rappresentatività degli speaker, non c’è una tempistica del varo dei provvedimenti e tantomeno una valutazione del loro impatto sui principali indicatori economici. Poi la gestione dei dossier più caldi, a cominciare dall’incredibile tormentone del ritardato pagamento della cassa integrazione, finiscono per trasferire la medesima sensazione: la capacità di dominare i processi amministrativi è inversamente proporzionale alla voglia di esibirsi in conferenze stampa. La politica come un tutorial dell’elettorato. E la conferma di come ancora una volta nel Palazzo la comunicazione venga considerata il passepartout per governare le società complesse e per bypassare allegramente le contraddizioni economiche e sociali.
Eppure basterebbe dare ascolto alle parole di Visco per avere quantomeno un principio ordinatore dell’azione di governo. Privilegiare la produttività non vuol dire intensificare lo sfruttamento, come si attardano a predicare vari talk show, ma affrontare i colli di bottiglia che ostacolano lo sviluppo italiano e riguardano sia fattori di contesto, a cominciare dall’inefficienza della pubblica amministrazione e dal calo degli investimenti, sia fattori di organizzazione delle aziende che vanno messe nelle condizioni di poter premiare i recuperi di rendimento.
Più l’obiettivo della produttività viene declinato in maniera larga e inclusiva (pensate al nesso istruzione-mobilità sociale) più emerge come nel Paese esista una larga constituency interessata alla sua realizzazione ed è su questa società aperta e silenziosa che va fatta leva per delineare una «via alta» dello sviluppo italiano.
Il rischio di disegnare invece un’italia a bassa competitività, ad alta incidenza del sommerso e a scarsa qualificazione del capitale umano è purtroppo evidente a tutti e trova una sponda in quelle nuove culture politiche che in nome della cittadinanza hanno legittimato l’ignoranza. E’ questo il vero Rubicone del nostro Paese, forse ancor più dell’alternativa destra-sinistra e sicuramente più dell’identikit dell’inquilino di palazzo Chigi, e infatti non è un caso che la produttività sia stagnante dai lunghi venti anni che hanno visto alternarsi nella stanza dei bottoni 10 governi e 7 presidenti del Consiglio.