Corriere della Sera

Dagli Stati Uniti partono le cause contro la Cina Il partito schiera gli avvocati

- DAL NOSTRO INVIATO G.sant.

Si stanno moltiplica­ndo negli Stati Uniti i tentativi di far causa alla Cina, accusata di aver provocato la pandemia con negligenze e omissioni. Pechino ha risposto che si tratta solo di provocazio­ni politiche senza base legale. In effetti, gli Stati stranieri godono di immunità giudiziari­a secondo la legge americana. Ma ora gli analisti cinesi ci stanno ripensando: hanno capito che un conto è essere certi di non dover pagare risarcimen­ti; ma un altro è la ricaduta sull’immagine nazionale di una infinità di azioni legali dibattute nelle corti degli Stati Uniti.

Quindi, serviranno avvocati specializz­ati in diritto internazio­nale per difendere l’onore della Repubblica popolare cinese. «Non è realistico ignorare queste cause», spiega Liang Yunxiang, professore della Peking University. Lo studioso di relazioni internazio­nali avverte che «la Cina cerca di non rispondere alla sfida legale, pensando che le cause non porteranno da nessuna parte, ma la realtà è che i dibattimen­ti infliggera­nno un ulteriore danno politico all’immagine della Repubblica popolare». Il professore ritiene necessario ingaggiare team legali internazio­nali perché la Cina sia presente nelle corti degli avversari americani e contesti la giurisdizi­one.

Ad aprile lo Stato del Missouri ha annunciato una causa non solo contro il governo cinese (che come detto gode di immunità in base al Foreign Sovereign Immunities Act), ma anche contro il Partito comunista, le amministra­zioni sanitarie di Wuhan e Hubei e una serie di entità cinesi minori, che potrebbero non essere ritenuti organi dello Stato. Quindi un giudice federale potrebbe accogliere la richiesta di udienza, per decidere se il capo del Partito di Wuhan ha avuto colpe nella pandemia (tra l’altro è stato rimosso). E poi, «class action» sono state intentate da cittadini in Florida, California, Nevada, Pennsylvan­ia e Texas.

Lo studio legale di Miami che ha fatto causa a nome di semplici cittadini della Florida che si sentono danneggiat­i dal coronaviru­s, ha scritto nella citazione: «Il presidente Xi Jinping ha detto di aver dato direttive per contenere il virus il 7 gennaio; ma è emerso che in realtà attese fino al 22 gennaio per un’azione effettiva» (quel giorno fu ordinata la chiusura di Wuhan). La storia è ormai nota, ma sentirla sviscerare in un’aula di tribunale americano, in assenza di contraddit­torio cinese, sarebbe una pessima strategia.

Il professore della Peking University ricorda un caso del 1982: una class action di cittadini americani che esigevano il pagamento di buoni del tesoro cinesi del 1911, ultimo anno della Dinastia imperiale. La Corte dell’alabama sentenziò in favore dei ricorrenti e il Partito-stato di Pechino, per uscire dal banco degli imputati, si affidò a uno studio legale americano che chiuse il contenzios­o nel 1986.

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