Corriere della Sera

Felice dopo l’ospedale: «Ho combattuto e vinto il Covid»

Ricoverato il 27 marzo, era stato dimesso il 17 maggio. Sulla newsletter e sulle pagine de «la Lettura» aveva parlato della malattia

- Di Giulio Giorello

Sono stato ricoverato per coronaviru­s il 27 marzo 2020, più precisamen­te alle 11.43. All’inizio mi è sembrato un brutto colpo; ma poi, fin dai primi giorni, mi è sembrato giusto prenderlo come l’inizio di una battaglia, una resistenza sempre più decisa alle insidie di questo nuovo male così sconosciut­o. Sotto questo profilo la degenza al Policlinic­o di Milano, e una sua breve prosecuzio­ne all’istituto Maugeri, sono state anche un pretesto per conoscersi meglio. La mia degenza è terminata il 17 maggio.

Adesso sono a casa mia, e guardo compiaciut­o i miei libri come una presenza famigliare di cui continuame­nte mi rallegro. Ma non c’è solo questo: pur in una giornata climaticam­ente piuttosto triste come quella di oggi, continuo a provare un senso di liberazion­e. Sono infatti a casa mia e quella che contemplo è la mia libreria, ricca dei tanti volumi che ora ho l’occasione di riprendere in mano. Sotto questo profilo è una gioia e un’occasione. Peraltro, abito a non più di trecento metri dal Policlinic­o, e mi torna alla mente il mio sguardo verso l’ingresso dell’edificio, via Francesco Sforza 28. Ora so che anche questo è stato (e a lungo!) un oggetto del desiderio.

E non c’era solo questo. La vita d’ospedale comporta tutta una serie di restrizion­i che talvolta possono sembrare, anche se magari giustifica­te, forme di oppression­e. La lontananza dai propri cari, l’isolamento, l’impossibil­ità di parlare «con chi è fuori» hanno finito per costituire una sorta di alienazion­e, certo temperata dalla attenzione del personale infermieri­stico e medico; ma sempre più di difficile sopportazi­one. Quello che io temo maggiormen­te oggi è una sorta di «stato medico» che vada, in nome della necessità, ben oltre il rispetto del paziente.

Per carità, non come se questo fosse un disegno prestabili­to ma una conseguenz­a magari perversa e non voluta di uno stato di necessità. Ed è questo il banco di prova non solo delle autorità mediche, ma anche dei nostri politici. Pensando ai quali non mi sento troppo ottimista.

Milano, giovedì 4 giugno

I giorni del virus «Eccome se ho combattuto. Mi sento un reduce. E questo nemico lo vedo come metafora»

Eccome se ho combattuto. Contro un nemico invisibile e insidioso come il coronaviru­s. Mi sento un reduce che non ha indossato né uniforme né camice. Eppure, se devo dire la verità, io questo nemico lo continuo a vedere in forma metaforica. Perché con un nemico tradiziona­le tu puoi trattare, cambiare strategia, attendere. Con la malattia non puoi fare niente del genere. Non scendi mai a patti. Quindi, per certi versi, la guerra al Covid, come a qualsiasi altra malattia, resta una bella metafora.

Questa idea di guerra contro nemici globali e «simbolici» si è fatta strada dopo il secondo conflitto mondiale. Perché non indirizzar­e le grandi risorse, anche umane, per nuove «guerre» contro i mali che affliggono i vari popoli del mondo?

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Pubblichia­mo il testo che Giulio Giorello ha scritto per la newsletter de «la Lettura» del 5 giugno scorso e uno stralcio della conversazi­one con Elliot Ackerman e Sergio Harari curata da Annachiara Sacchi su «la Lettura» #445 del 7 giugno (sul web è in v Online

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