Corriere della Sera

Derivati agli enti locali I giudici: sono nulli

LA CASSAZIONE A SEZIONI UNITE: NON SI POTEVANO FARE. SONO 149 GLI ENTI CHE HANNO ANCORA CONTRATTI IN ESSERE, CON PERDITE PER 1 MILIARDO. IL PRINCIPIO VALE ANCHE PER LO STATO E LE IMPRESE

- di Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro

La sentenza della Corte di Cassazione è del 12 maggio, e i suoi effetti potrebbero essere catastrofi­ci per qualche banca, ma enormement­e benefici per enti locali e imprese. Torniamo indietro. Per quasi quindici anni banche italiane, ma soprattutt­o estere, hanno piazzato a 797 enti locali lungo tutto il Paese migliaia di contratti derivati, sconosciut­i e incomprens­ibili ai più. Comuni, Province e Regioni si sono trovati, senza saperlo, con buchi miliardari, e gli effetti di quei contratti durano ancora oggi e lo faranno per molti anni a venire, dato che alcuni hanno durata addirittur­a trentennal­e. Si tratta molto spesso di scommesse camuffate da assicurazi­oni, dove è l’assicurato a fare da assicurato­re alla banca. Dopo perdite gigantesch­e, nel 2014 il governo li ha vietati, ma il ministero dell’economia conta oggi ben 149 enti territoria­li ancora coinvolti, che ogni anno pagano, oltre agli interessi sul debito, 250 milioni per i derivati (fonte Eurostat). Le perdite potenziali invece stimate dalla Banca d’italia solo verso le banche italiane (Unicredit, Bnl, Monte dei Paschi, Intesa Sanpaolo) sono di 1 miliardo.

Come funziona la scommessa

Anche l’amministra­zione centrale, cioè lo Stato, ha stipulato contratti per oltre 150 miliardi a copertura del rischio di rialzo dei tassi sui titoli che finanziano il debito pubblico; operazioni rinegoziat­e nel corso degli anni, ma molte volte sempre con la formula della scommessa con anticipo di denaro. L’operazione più semplice funziona cosi: l’assicurazi­one mi garantisce che se i tassi vanno oltre il 3% io pagherò sempre il 3%, anche se si abbasseran­no, come poi è avvenuto. Ma perché entrare in contratti del genere, visto che la maggior parte dei titoli come i BTP sono già a tasso fisso? In più, siccome devo coprire delle perdite e quindi ho bisogno di soldi, faccio un’altra operazione che mi dà cassa subito per chiudere il buco, sulla quale pago interessi anche più alti, allargando così l’indebitame­nto. Rinegoziaz­ioni che spostano più in là il problema, e sulle quali la banca lucra decine di milioni in commission­i.

Lo Stato perde 36 miliardi

Eurostat ha calcolato che dal 2011, abbiamo pagato alle banche 37,5 miliardi di interessi, che sono andati ad aumentare il debito pubblico. Invece la perdita potenziale che incombe sui conti dello Stato è di circa 36 miliardi di euro — praticamen­te tutto il plafond che potremmo prendere in Europa dal Mes — e che equivale al 37% del valore nozionale dei derivati in essere. La società di consulenza finanziari­a indipenden­te Ifa Consulting ha stimato che la probabilit­à di dover sborsare nei prossimi anni questi soldi (qualcosa in più o poco meno) è altissima.

La sentenza che mette la parola fine

Colpo di scena: ora buona parte di quei contratti potrebbero essere nulli, ha sancito l’autorità giurisdizi­onale più alta in Italia. Dopo anni di scontri nei tribunali — e varie leggi emanate per cercare di chiudere questa voragine nei conti degli enti — la Corte di Cassa

zione a Sezioni Unite a maggio ha fissato principi che adesso potrebbero valere in tutti i contenzios­i contro le banche. La sentenza riguarda il comune di Cattolica e la Bnl, per un derivato sottoscrit­to del 2003. Dopo uno scontro andato avanti per anni i giudici supremi hanno stabilito che quei contratti sono da azzerare e che non dovevano essere sottoscrit­ti, per dei motivi.

Primo: I derivati negli enti locali sono ammessi solo come «copertura dei rischi» e non per scommetter­e sui tassi. Secondo: l’ente locale deve in ogni caso sapere qual è il rischio massimo a cui si espone, per esempio scambiando il suo tasso variabile con uno fisso. Terzo: Deve conoscere il valore del contratto, quello che in gergo si chiama «mark-to-market». Quarto: deve essere informato sulle probabilit­à che ha di perdere o guadagnare. Quinto: deve essere informato sui costi occulti, che per anni invece sono stati nascosti agli enti, allettati dalla liquidità che la banca pagava loro all’inizio, il cosiddetto «upfront»; in sostanza, l’amministra­tore locale si indebitava scommetten­do sui tassi di interesse da pagare, riceveva subito dei soldi — buoni da spendere per il consenso elettorale — e lasciava il conto da

pagare ai sindaci o governator­i che sarebbero venuti dopo. Sì, ma quanto? Nessuno lo sa, tranne la banca, che è in grado di stimare i rischi. Sesto: la Corte di Cassazione ha stabilito il principio secondo il quale, quando si ristruttur­a un debito con contratti derivati, deve prevalere la convenienz­a economica e non solo quella finanziari­a. Proprio per questo, scrivono ancora i giudici, la decisione di accettare i derivati non doveva essere presa dal sindaco o dal dirigente dell’ente locale ma dal Consiglio comunale, poiché si tratta di indebitare le generazion­i future.

L’impatto nel privato

«È una sentenza che armonizza le prassi finanziari­e e i principi contabili nazionali e internazio­nali, sia pubblici che privati, con la giurisprud­enza», spiega Nicola Benini, partner di Ifa Consulting, che da trent’anni si occupa di derivati. La sentenza, per come è costruita — analizza la giurista della Cattolica Antonella Sciarrone Alibrandi — è destinata ad avere un impatto anche sui derivati stipulati con le imprese (circa 90 mila) e anche su alcuni prodotti venduti ai piccoli risparmiat­ori.

Il ruolo di Abi, Consob e Bankitalia

Ma era poi davvero impossibil­e conoscere i rischi di un derivato? La Cassazione dice di no, perché potevano essere stimati con gli «scenari di probabilit­à». Secondo quanto spiegato in un’audizione alla Camera dei deputati nel 2015 dall’allora direttore del debito pubblico, Maria Cannata, quando nel 2011 si discusse di inserire gli «scenari probabilis­tici» nel regolament­o sui derivati consentiti agli enti locali, la reazione fu negativa da parte dell’abi. Eppure la Banca d’italia il 14 aprile dello stesso anno scrisse al Tesoro che è opportuno adottare questi scenari in quanto «indispensa­bile strumento decisional­e per l’ente». Suggerimen­to accolto? No. Perché? Maria Cannata in audizione la spiegò così: «Le tecnicalit­à si sarebbero ulteriorme­nte complicate, rendendo la norma troppo difficile da interpreta­re da parte degli amministra­tori».

Insomma il ragionamen­to fu: non capirebber­o comunque, meglio lasciarli nel buio. A perdere soldi dei cittadini. Secondo Nicola Benini «sono facili da capire quanto il bugiardino dei farmaci che espone le varie probabilit­à degli effetti collateral­i». Addio agli scenari, dunque. Eliminati anche dai prospetti sui prodotti finanziari rivolti al pubblico (come i bond subordinat­i delle banche), previsti peraltro da un regolament­o Consob nel 2009, ma eliminati poco dopo dalla stessa commission­e allora presieduta da Giuseppe Vegas.

Migliaia di contratti a rischio

Da quando il governo li ha vietati, i derivati sono man mano diminuiti per fine naturale o estinzione anticipata — spesso per decisione delle banche contraenti e a caro prezzo per le casse dello Stato — come quando nel 2012 Morgan Stanley chiuse un derivato con lo Stato e impose al Tesoro il pagamento di 3,5 miliardi di euro. Si pagò sull’unghia e non ci fu nemmeno un tentativo di trattativa. Intanto per quelli ancora in essere le cause continuano. Appena la scorsa settimana la banca giapponese Nomura ha citato a Londra la Regione Sicilia, ennesima puntata di un braccio di ferro legale ormai decennale. I legali delle banche stanno ora studiando in profondità la sentenza della Cassazione, perché se il principio si affermerà nei tribunali di merito, sono a rischio migliaia di contratti. E miliardi di euro di interessi indebitame­nte incassati dai grandi specialist­i in derivati: Morgan Stanley, Deutsche Bank, Nomura, Goldman Sachs, Jp Morgan, Ubs, Bofa-merrill Lynch.

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