Ad Alzano 110 polmoniti sospette da novembre a gennaio
La Procura vuole capire se l’allarme è partito in ritardo L’ats replica: effetto della stagionalità, come in passato
BERGAMO L’allarme coronavirus poteva scattare in anticipo all’ospedale di Alzano Lombardo? Se lo sta chiedendo la Procura di Bergamo, che con ogni probabilità acquisirà i dati resi pubblici dal consigliere regionale di Azione Niccolò Carretta, dopo aver ottenuto risposte a una sua interpellanza dall’assessore Giulio Gallera, dal direttore generale dell’azienda ospedaliera che gestisce Alzano, Francesco Locati, e dal direttore generale dell’agenzia di tutela della salute di Bergamo Massimo Giupponi. Numeri che parlano di 110 pazienti ricoverati per polmoniti classificate con «agente non specificato» tra novembre 2019 e gennaio di quest’anno, di cui 52 solo a gennaio, con un incremento rilevante rispetto agli anni precedenti, quando c’erano comunque polmoniti senza indicazioni virologiche specifiche, ma in misura più blanda: 196 casi nel 2018 contro i 256 di tutto il 2019, un incremento del 30% da ascrivere quasi completamente agli ultimi due mesi dell’anno. E poi c’era stato gennaio, che aveva rappresentato un balzo ulteriore. E ieri su questi numeri è intervenuto anche il governatore lombardo Attilio Fontana: «Studi sierologici e lettura a posteriori delle cartelle cliniche confermano la presenza del virus sul territorio già da diversi mesi. I medici hanno fatto il loro dovere. I protocolli erano sbagliati».
Ma i dati erano stati trasmessi dall’azienda ospedaliera all’ats e quindi alla Regione, in quel periodo? Probabilmente erano arrivati a Palazzo Lombardia, con i flussi trimestrali, i numeri di fine 2019. Ma quelli di gennaio erano contenuti nel report successivo, di fine marzo, quando l’emergenza era ormai al suo apice. L’ats, in una nota di ieri, ha specificato che anche sui numeri resi pubblici su Alzano, e in generale in quelli di tutta la Bergamasca, si riscontra un «effetto di stagionalità, come negli anni precedenti», sostenendo quindi che quei dati evidenziano un fenomeno più o meno stabile, di anno in anno, nei mesi più freddi. Secondo il direttore dell’ats, Massimo Giupponi, «la presenza di ricoveri per polmoniti con agente non specificato, a causa dell’indeterminatezza insita nel codice stesso, non permette di ascrivere tali degenze a infezione da Sars Cov-2». Per diagnosticare il Covid servivano i tamponi. Ma il punto è che anche quelle polmoniti, di pazienti già ricoverati a novembre, non avevano fatto scattare nessun allarme. E ieri si è scatenata la polemica politica: «Perché la Regione non ha indagato?» ha chiesto il segretario del Pd lombardo, Vinicio Peluffo. «Tutti i dati — secondo il leghista Roberto Anelli — erano stati trasmessi anche al ministero della Salute». Mentre Carretta, che ha svelato i numeri, intende andare avanti: «Occorrono i dati di tutta la Regione per trovare il vero primo focolaio, che potrebbe anche non essere Codogno. Avere i dati corretti aiuta a ricostruire meglio l’accaduto, come doveroso».
Il tema di polmoniti e sintomi sospetti ben prima del 23 febbraio era già emerso e interessa la Procura di Bergamo, che indaga per epidemia colposa. Uno dei nodi sta nelle circolari ministeriali: solo nella versione in vigore tra il 22 e il 27 gennaio era previsto che i medici potessero procedere al tampone in caso di tracolli rapidi dei pazienti e comunque di fronte a sintomi sospetti, anche senza una storia di viaggio in Cina o di contatti indiretti con quel Paese.
Dopo il 27 gennaio, il criterio dei contatti con la Cina era diventato esclusivo, bisognava riscontrarlo per poter procedere all’accertamento. I medici e i direttori sanitari, nel caso specifico ad Alzano, potevano andare oltre quelle direttive e fare il tampone senza incorrere in sanzioni o procedimenti disciplinari? La Procura cerca risposte anche tramite il super consulente Andrea Crisanti, dell’università di Padova, e il nuovo esperto appena ingaggiato, il direttore sanitario Daniele Donato, anche lui da Padova e già al lavoro con Crisanti per affrontare l’epidemia in Veneto. Loro sì, erano andati oltre le regole ministeriali per procedere ai tamponi.
Il governatore Fontana: «Il virus c’era da mesi. I medici hanno fatto il loro dovere, sbagliati i protocolli»