Ops di Intesa, il nodo del 66% Il consiglio Ubi decide venerdì
Primo esame dell’offerta dei pattisti. L’attesa per il verdetto dell’antitrust
Il patto di sindacato degli azionisti bresciani di Ubi Banca ha rinviato la decisione sull’offerta di scambio lanciata da Intesa Sanpaolo, per attendere le valutazioni del consiglio dell’istituto guidato da Victor Massiah che si riunirà venerdì.
Il patto tra 38 azionisti di Ubi a cui è stato conferito l’8% del capitale si è riunito ieri per decidere come valutare l’offerta. Nel corso della riunione, hanno spiegato fonti vicine al patto, è stata confermata «coesione e linearità» tra gli aderenti. Il patto di sindacato dei soci bresciani è uno dei tre che governa Ubi, insieme al Car (20%) e al patto dei Mille (1,6). C’è poi una quota dell’8% in mano al fondo Parvus di Edoardo Mercadante, su cui si sta concentrando molta attenzione.
Per procedere in modo spedito e senza ostacoli alla fusione per incorporazione dell’istituto bresciano-bergamasco, il gruppo guidato da Carlo Messina deve raccogliere nella sua offerta di scambio che parte lunedì e si chiude il 28 luglio i due terzi del captale di Ubi. Ogni quota azionaria inferiore alla soglia che dà a Intesa il controllo matematico dell’assemblea straordinaria — che sarà chiamata a votare la cessione di 532 filiali di Ubi a Bper per rientrare nei limiti Antitrust, se saranno confermati i rimedi proposti da stessa Intesa — potrebbe creare problemi nella realizzazione delle condizioni che l’authority presieduta da Roberto Rustichelli potrebbe imporre, almeno nei dubbi che vengono sollevati dal fronte opposto. La decisione è attesa entro il mese. La questione è: che succede se Intesa Sanpaolo non conquisterà il 66,67% ma si fermerà sopra il 50% più un’azione? È uno dei «rischi» elencati nel documento di registrazione dell’ops. Nel confronto con l’antitrust se n’è dibattito a lungo. La banca milanese ha spiegato che proporrebbe comunque all’assemblea di Ubi la fusione. E in ogni caso, anche se non si andasse all’integrazione, non avrebbe difficoltà a procedere alla vendita del ramo d’azienda a Bper, come da accordi stretti con l’istituto guidato da Alessandro Vandelli e sostenuto dal suo primo azionista, l’unipol di Carlo Cimbri che è al 20%. Potrebbe farlo in quanto — statuto Ubi alla mano — la delibera sarebbe di competenza del consiglio di amministrazione di Ubi (di cui Intesa, un volta diventata azionista di controllo, potrà indicare la maggioranza dei consiglieri, due terzi dei quali indipendenti). Ma anche se si ritenesse che la decisione non spetti al board, per Intesa si tratterebbe di materia da assemblea ordinaria, dove conta la maggioranza assoluta.
Tuttavia, senza il 66,67% delle adesioni, la strada per Messina — cosa che il board di Ubi potrebbe evidenziare venerdì — non sarebbe priva di ostacoli. È stato sollevato il problema del voto in consiglio: in base a quale interesse voterebbero i consiglieri di Ubi sulla vendita di un ramo d’azienda? Quello della capogruppo o quello di Ubi? E quale sarà il valore attribuito al compendio da cedere? Domande cui i consiglieri dovranno dare risposte che li impegnano a livello di responsabilità personale, e che potrebbero essere contestate dai soci di minoranza di Ubi.
Insomma il fronte bresciano-bergamasco evidenzia rischi di scontri legali che potrebbero durare a lungo. Anche se a farne le spese sarebbe alla fine proprio Ubi. La via d’uscita potrebbe fornirla l’antitrust. Qualora non decidesse di impedire tout-court un’operazione già approvata dalla Bce e dalla Consob, potrebbe imporre l’effettività del rispetto della condizione. Al limite imponendo a Intesa di cedere anche suoi sportelli pur di rientrare nei limiti. Sotto questo profilo, la condizione di imporre il raggiungimento della soglia del 66,67% sarebbe stato considerato nelle discussioni ma poi accantonato. Ciò che conta — sarebbe la linea dell’antitrust — non è un numero ma l’efficacia del mercato.
Intesa Sanpaolo comunque stima anche «in ipotesi di mancato perfezionamento della fusione», di «poter comunque conseguire sinergie annue, a regime, a decorrere dal 2024 (incluso) per 611 milioni (circa l’87% delle sinergie previste in caso di fusione), di cui Euro 156 milioni sui ricavi (pari al 100% delle sinergie ipotizzabili in caso di Fusione) ed Euro 455 milioni sul versante dei costi (ovvero circa l’84% delle sinergie da fusione». Tenere in piedi Ubi come entità giuridica, sottolinea Intesa Sanpaolo, costerebbe 90 milioni.