BARLETTA SFIDA INFINITA
ITALIANI E FRANCESI, LA PAROLA ALLE ARMI QUANTE POLEMICHE ANCHE SUL FILM DEL 1938
Un saggio di Fulvio Delle Donne, edito da Salerno, sullo scontro tra cavalieri che vide i nostri connazionali avere la meglio nel 1503. Un evento celebrato a lungo dalla retorica patriottica, ma oggetto anche di diatribe campanilistiche
Il 13 febbraio del 1503 fu una data non qualsiasi che cadde nel contesto delle «Guerre d’italia», una serie di scontri bellici (otto) nella nostra penisola — ancora ben lontana da diventare Italia — tra il 1494 e il 1559. Antefatto di queste guerre la morte di Lorenzo de’ Medici, il Magnifico (1492) e quella del re di Napoli Ferrante d’aragona (1494). Due decessi che provocarono squilibrio nella politica continentale, del quale cercò di profittare il re di Francia Carlo VIII entrando in Italia in quello stesso 1494. Carlo VIII morì quattro anni dopo, nel 1498. Il suo successore fu Luigi XII. Ma le guerre continuarono.
Ad elevare ciò che accadde in quel 13 febbraio 1503 ad episodio fondamentale del nostro passato, fu Francesco Guicciardini nella Storia d’italia (Einaudi), quando si occupò di Carlo VIII e dei conflitti tra francesi e spagnoli. L’assai ampia descrizione guicciardiniana della «disfida» è nella parte conclusiva del libro V, presumibilmente scritto nel 1537. Ne parlò come di un «accidente che diminuì assai l’ardire de’ franzesi, non potendo attribuire alla malignità della fortuna quello che era stato opera propria della virtù». Tre secoli dopo, nel 1833, Massimo D’azeglio dedicò alla vicenda del 1503 un romanzo storico (Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta). Quel marginale fatto d’arme fu tenuto poi, nell’italia fascista, in grandissima considerazione. Considerazione destinata a restar tale anche dopo la fine di Mussolini, tant’è che gli storici hanno continuato ad occuparsi dell’episodio. Perché? Per il fatto che la «disfida» non fu soltanto lo scontro cavalleresco tra francesi e «italiani» (combattenti dalla parte degli spagnoli) avvenuto vicino a Trani all’inizio del Cinquecento. Fu anche altro. Molto altro.
Questo l’assunto di Tredici contro tredici. La disfida di Barletta tra storia e mito nazionale, scritto da Fulvio Delle Donne e pubblicato dalla Editrice Salerno. Come prima cosa va precisato che lo scontro non ebbe luogo a Barletta, bensì — come s’è detto — in territorio neutro, tra Andria e Corato, luoghi «sotto controllo dei Veneziani, i quali soli potevano garantire imparzialità e sicurezza al campo dell’agone». E questa «usurpazione» di Barletta a danno del luogo in cui il confronto realmente avvenne, come vedremo, avrebbe nel tempo provocato contese e scontri. Anche sanguinosi.
Delle Donne si sofferma sul romanzo di D’azeglio, sottolineando il fatto che quella dell’autore era l’epoca del Risorgimento e «l’amore di patria, la definizione dell’identità nazionale passavano anche la ricostruzione (se non la creazione ex novo) della memoria storica del popolo». La cultura risorgimentale, «frutto della temperie romantica che trasse fuori il Medioevo dal buio della ragione in cui l’aveva ricacciato l’illuminismo», cercò costantemente nei secoli di mezzo «il momento fondativo dell’identità italiana». Fu una vera e propria operazione di «edificazione della nazione». Per «rielaborare la comprensione del passato» occorreva «reindirizzare gli eventi e piegarli all’uso comunicativo che se ne voleva fare». Ovvero alla definizione di «un concetto di patria, che di fatto ancora non esisteva» se non «nelle speculazioni teoriche di storici e di letterati». Fu così che nel corso di buona parte del XIX secolo si cercò di «enfatizzare tutti quegli eventi del passato e quegli eroi che potevano infondere un sacro amore di patria nello spirito degli italiani sparsi nei vari stati e staterelli della penisola». La «disfida», con la sua «potente immagine trionfale di riscatto di una nazione oppressa dagli stranieri», si «adattava alla perfezione agli ideali risorgimentali».
Ma veniamo all’episodio. Siamo nel gennaio del 1503: durante una sortita guidata da Diego de Mendoza, alcuni cavalieri spagnoli si imbattono nelle retroguardie di un distaccamento francese guidato da Charles de Torgues, signore di La Motte. In soccorso degli spagnoli giunge una brigata di uomini capitanata da Prospero Colonna che fa prigioniero lo stesso La Motte. Il tono degli italiani è di scherno nei confronti dei francesi talché La Motte quando viene liberato e può tornare al suo quartier generale sfida gli uomini di Colonna ad una tenzone: dieci contro dieci (destinati a diventare tredici in tutti e due i campi). Chi furono questi tredici?
Giuliano Procacci — in La disfida di Barletta. Tra romanzo e storia (Mondadori) — rinunciò a identificare i ventisei duellanti, esercizio che a lungo aveva appassionato gli storici. Su un solo nome gli studiosi erano sempre stati concordi, quello di Ettore Fieramosca (o Ferramosca), il comandante degli italiani. Suo nonno, Pietro, detto Rossetto, aveva impugnato le armi al servizio dei sovrani aragonesi in tutte le guerre del Regno di Napoli nella seconda metà del Quattrocento. Era poi stato compensato dalla corona con ragguardevoli possedimenti. Il padre, Rinaldo, aveva seguito la strada del genitore, dalla parte di Ferdinando d’aragona, e aveva perso la vita durante l’assedio di Gaeta nel novembre 1496. A Gaeta era presente anche Ettore che già seguiva le orme di nonno e padre. Nel 1500, durante la difesa di Capua, Ettore si fece apprezzare da Fabrizio Colonna cugino del Prospero Colonna di cui si è detto. Al quale Fabrizio sarebbe toccato — per conto del viceré Gonzalo Fernandez de Cordoba — il compito di mettere assieme i tredici valorosi di Barletta. Tra i quali lasciarono un segno Fanfulla da Lodi e Bracalone (che nel romanzo di D’azeglio assunse il nome di Brancaleone).
Efu lo scontro. Come mai quella curiosa tenzone? All’epoca i conflitti militari erano diventati sempre più cruenti. Una forma di «bestialità» ben descritta nonché deprecata — nel secolo precedente — dallo storico Flavio Biondo (1392-1463) e dal vescovo umanista Giovanni Antonio Campano (14291477). Spagnoli, francesi e tedeschi si erano presto adeguati al muovo modo di combattere. I catalani, ma anche i francesi, si vantavano della loro «crudeltà ferina». Gli italiani no. E la loro veniva scambiata per «mollezza». Per «assenza di passione». Incapacità di uccidere. Vocazione, anzi «rassegnazione alla sconfitta». Secondo Campano, invece, a giustificare questo modo di combattere degli italiani, che risparmiavano la vita ai nemici, non c’era solo la voglia di catturarli e chiederne il riscatto. C’erano «motivazioni etiche». Quelle, spiega Delle Donne, che impongono di non ammaz
zare inutilmente «soprattutto altri italiani» per lo stesso motivo per cui i fratelli non possono uccidere i propri fratelli e i figli non possono ammazzare i propri padri. Gli italiani, se si presentava il caso, avrebbero dato prova della loro valentia in combattimenti come quello di Barletta.
Quel giorno la «disfida» avrebbe dovuto essere quasi un gioco. La posta era di cento corone per ognuno dei combattenti (1.300 per ogni squadra). Dopodiché i francesi, prendendo poco sul serio gli avversari per i motivi di cui si è testé detto, si scomposero. Gli italiani no. Riuscirono anche a uccidere il «traditore» Graiano d’asti, che era passato con i nemici nella previsione di una loro scontata affermazione. Alla fine Fieramosca ebbe ragione di La Motte. E si scoprì che «confidando in una facile vittoria», nessuno dei francesi aveva portato con sé le cento corone e, dopo essere stati quasi tutti disarcionati, furono costretti a consegnarsi come prigionieri in attesa del «riscatto».
Negli anni che seguirono, da parte francese fu silenzio quasi assoluto su quello scontro a Sant’elia. E se ne comprende il perché. L’unico a parlarne fu Jean d’auton, benedettino nonché storiografo del re di Francia Luigi XII, che ne minimizzò la portata attribuendo la vittoria italiana a uno «stratagemma». Indirettamente ne parlò anche il capitano ugonotto François
d
Il trionfo del mito La contesa in Puglia nel XVI secolo, con la sua «potente immagine trionfale di riscatto», si «adattava agli ideali risorgimentali»
In epoca fascista Trani e Barletta entrarono in conflitto rivendicando di essere il luogo della «disfida». Vi furono persino incidenti con due morti
de La Nouë (1531-1591) in alcune annotazioni a margine della Storia d’italia di Guicciardini. Secondo de La Nouë un combattimento di quel tipo non poteva dire nulla del valore di una nazione e Guicciardini aveva dedicato sin troppo spazio a «una piccola vittoria, ottenuta con l’astuzia piuttosto che con la forza». Meglio avrebbe fatto, Guicciardini — sempre a detta di de La Nouë — a dedicare a quella vicenda cinque righe. Non di più.
Einvece la «disfida», scrive Delle Donne, «con la sua potente immagine trionfale di riscatto di una nazione oppressa dagli stranieri, si adattava perfettamente agli ideali risorgimentali». Avrebbe potuto disinteressarsene il regime fascista? Ovviamente no. Nel 1928 fu costituito un Comitato per la costruzione di un monumento in onore della «disfida» (era dal 1866 che se ne parlava). La battaglia fu vinta nel 1931 e, anche per le sollecitazioni del segretario del fascio barlettano Arturo Boccassini, in settembre fu dato l’annuncio che il monumento era quasi pronto. Ma nell’ottobre di quello stesso anno l’avvocato tranese Michele Assunto Gioia pubblicò un opuscoletto nel quale si sosteneva che la «disfida» non dovesse più essere attribuita a Barletta, bensì a Trani. Il 28 ottobre di quello stesso 1931, la «Gazzetta del Mezzogiorno» pubblicò un articolo del sottosegretario di Stato alla Comunicazione,
Sergio Panunzio, il quale sosteneva che il monumento doveva essere posto là dove la battaglia era effettivamente avvenuta. E che, a tal fine, aveva fatto leggere il pamphlet di Gioia al ministro dell’educazione nazionale Balbino Giuliano, successivamente persino a Benito Mussolini.
Boccassini reagì con un contro articolo che la «Gazzetta del Mezzogiorno» rifiutò di pubblicare anche per l’intervento del ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza e di Leonardo d’addabbo, un importante membro del direttorio nazionale del partito. Boccassini trasformò il suo scritto in un libretto e un gruppo di squadristi barlettani, che chiassosamente, avrebbero voluto consegnarlo ad alcuni maggiorenti di Trani, trovarono ad accoglierli la polizia. Con la quale si scontrarono.
Adirimere il caso fu costituito a Bari un nuovo Comitato che avrebbe dovuto occuparsi del monumento. Ne facevano parte il console generale della milizia Vittorio De Martini, Achille Starace (all’epoca vicesegretario del partito) D’addabbo e Crollalanza. Nessun barlettano. A questo punto gli uomini di Boccassini optarono per il fatto compiuto: trasformarono il bozzetto in un rudimentale monumento e lo posero in piazza Roma,la più importante di Barletta (oggi si chiama piazza Aldo Moro). Boccassini fu immediatamente sollevato dall’incarico di segretario del Fascio. E così anche il podestà Lamacchia. Ma quando giunsero a Barletta i sostituti del segretario e del podestà, si scatenò una manifestazione di collera che portò a una reazione da parte della polizia. Reazione violenta: 39 furono gli arrestati, sedici i feriti e due i morti. Successivamente, a Roma, furono fermati anche Boccassini e Lamacchia, mentre provavano ad interessare al caso un onorevole di Barletta, Raffaele Passeretti.
Il caso stava per diventare una bomba. Per fortuna la Corte d’appello di Bari, con un’inattesa velocità, prosciolse tutti da ogni imputazione e gettò un secchio d’acqua sul fuoco. E si voltò pagina Ma quel che non era riuscito a fare il monumento, lo fece un film, Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti (1938). Liberamente tratta dal romanzo di D’azeglio, l’opera di Blasetti riusciva a «parlare efficacemente dell’italia fascista, attraverso l’esaltazione di un personaggio» come il Fieramosca (impersonato da Gino Cervi) assurto a «gloria nazionale» che «aveva anche il pregio di mettere in scherno la suffisance della Francia nazione ormai nemica».
Il successo fu grande. Però tre importanti critici cinematografici, Filippo Sacchi («Corriere della Sera»), Sandro De Feo («il Messaggero») e Fabrizio Sarazani («Il Giornale d’italia»), trattarono quella pellicola con sufficienza. Fu costretto a scendere in campo il figlio del Duce, Vittorio Mussolini, che sulla rivista «Cinema» (da lui stesso diretta) accusò i tre di «diffusa superficialità» e di «impreparazione». Colpe che avrebbero loro impedito di comprendere il valore di quel «bellissimo film … che onora la nostra industria». Riconsiderata oggi, quella difesa del film di Blasetti fu una prova di debolezza. Dell’intero regime.