L’ultimo biglietto del sindaco di Seul accusato di molestie
Potente, femminista: trovato morto nel bosco
Tre parole invadono venerdì i social network sudcoreani: «Riposa in pace». Sono banali, eppure dividono. C’è chi le usa per salutare il sindaco di Seul Park Won-soon, 64 anni, trovato morto su una collina dopo 7 ore di ricerche, lanciate dall’allarme della figlia quando ha capito tutto; e c’è chi con quel «Rip» seppellisce «la giustizia», finita nella tomba insieme al politico che non ha avuto il coraggio di affrontarla.
Prima di candidarsi, Park era un avvocato di fama. Nel 1998 vinse la prima causa della storia del Paese per molestie sessuali, difendendo una ricercatrice universitaria. Ma mercoledì sera una delle sue segretarie si è rivolta alla polizia per denunciare le molestie «che andavano avanti dal 2017» proprio da parte del primo cittadino. Che non ci ha messo molto a scoprirlo, e a decidere cosa fare.
Giovedì mattina ha salutato la figlia con parole che, dirà lei alla polizia diverse ore dopo, in effetti «suonavano come un testamento»: se ne accorgerà nel pomeriggio, quando il telefono del padre risulta staccato da ore, e al lavoro non ci è mai arrivato, dopo aver disdetto tutti gli appuntamenti. Centinaia di agenti, di droni e di cani partono a caccia di Park. Lo trovano senza vita in un bosco su un piccolo monte a nord di Seul, mentre le televisioni iniziano a parlare delle accuse di molestie. Gli investigatori dicono poco, ma fanno capire tutto: sulla scena non ci sono segni che facciano pensare a un omicidio. Più tardi spunta anche un biglietto, in cui Park chiede perdono ai familiari e dice: «Mi scuso con tutti». Ma mentre fuori dall’ospedale cantano «ti amavamo!», e le tv internazionali raccontano la fine dell’uomo che nel 2022 poteva diventare presidente dopo Moon Jae-in, su internet montano altri sentimenti. Una petizione online per chiedere «l’annullamento dei 5 giorni di lutto cittadino» raccoglie 300 mila firme in poche ore. E in tanti manifestano preoccupazione per «la vera vittima di questa storia»: l’autrice della denuncia, la cui identità è ancora segreta, che ora «rischia di portare la colpa della morte di Park Wonsoon».
Una doppia sconfitta. Perché
se fossero vere le sue accuse, la speranza di avere giustizia sarebbe morta con il sindaco: la scomparsa dell’accusato impedisce agli investigatori di proseguire le loro indagini. E lascia il Paese, ancorato a una cultura dove salvare la faccia, la chemyon, è più importante della vita stessa, sgomento a interrogarsi: chi era davvero Park Won-soon? L’avvocato e attivista per i diritti umani, «femminista» — come si definiva — in una Corea patriarcale, che aveva difeso la causa delle «donne di conforto», schiave del sesso dai tempi della Seconda guerra mondiale, era un molestatore? «Forse aveva fatto qualcosa di male — ammette una passante fuori dall’ospedale — ma ora non possiamo più chiederglielo. E anche questo è un dispiacere».
Poche ore prima era stato denunciato dalla segretaria: ha disdetto tutto ed è sparito