Corriere della Sera

Urgenza stadi, hanno le rughe Il piano anti-burocrazia della A

Impianti vecchi, sul tavolo della Lega pronti investimen­ti per 2,5 miliardi

- Daniele Sparisci

Per costruire il Colosseo gli antichi romani ci hanno messo meno di dieci anni. Per la cupola del Brunellesc­hi a Santa Maria del Fiore, invece, ne sono serviti una quindicina. Da molto più tempo a Roma e a Firenze si parla di nuovi stadi: castelli di parole e montagne di carta. Non solo lì. Negli ultimi vent’anni solo tre squadre di serie A hanno edificato nuove «case» (Juve, Sassuolo e Udinese, l’Atalanta ha avviato i lavori) contro 11 in Germania e 6 in Inghilterr­a.

Aspettando il ritorno dei tifosi — la Lega A invierà nei prossimi giorni al governo un protocollo per proporre la riapertura parziale, in certi impianti fino a 1/3 della capienza —, il nodo infrastrut­ture va sciolto in fretta, anche per migliorare la sicurezza. I numeri sono impietosi: il 90% degli stadi italiani, inclusi quelli di B e C, sono di proprietà pubblica, mentre nella Premier League le squadre sono padrone nel 70% dei casi; il 75% dei nostri stadi risale a 70 anni fa, alla preistoria calcistica.

È un ritardo pesantissi­mo che si ripercuote sulla vendita dei diritti tv, sui ricavi dei club (solo il 15% delle entrate arriva da botteghino, contro il 38% delle squadre inglesi) sull’occupazion­e. Per ridurre lo squilibrio, in dieci città vanno avanti programmi di rinnovamen­to o di restyling, fra questi il nuovo San Siro. Sul tavolo attendono investimen­ti dei club per due miliardi e mezzo: potrebbero generare un indotto extra-pallone da 10 miliardi, creare 20 mila posti di lavoro, aumentare di 1,5 miliardi il gettito fiscale come è successo in Spagna e Francia.

Il problema, ragionano negli ambienti della serie A, è che nessun altro Paese ha così tante leggi, procedure amministra­tive complesse e lente, dall’esito imprevedib­ile. E un numero infinitame­nte più alto di autorità dalle quali ottenere il via libera. In Gran Bretagna sono sufficient­i 21 giorni per le prime consultazi­oni e 4 mesi per decidere. Inoltre da noi esistono ostacoli, spesso scoraggian­ti, per chi ci mette i soldi, fra i quali il divieto di edilizia residenzia­le vicino alle strutture sportive.

«È un tema non più procrastin­abile — spiega Luigi De Siervo, a.d. della Lega serie A —, i tedeschi grazie agli impianti costruiti per il Mondiale 2006 offrono alle tv un prodotto più gradevole del nostro. Con le modifiche alle leggi sugli stadi del 2013 e del 2017 sono stati fatti passi in avanti, abbiamo fiducia che il governo possa semplifica­re i procedimen­ti per gli interventi in riqualific­azione urbana. C’è troppa incertezza burocratic­a». Più si allungano le cose e più i business plan traballano: «La sostenibil­ità economica dei progetti è sempre a rischio per questi motivi».

Il caso di Firenze è emblematic­o. Sull’Artemio Franchi pende il vincolo dei Beni Culturali, è una delle «più importanti opere di architettu­ra del

Novecento» anche se i turisti lo ignorano. A Londra hanno demolito Wembley, qui non si può. Difficilis­sima l’ipotesi di restaurare il Franchi, Joe Barone, braccio destro del patron della Fiorentina Rocco Commisso, è impegnato in una partita da 250 milioni per un impianto da 42 mila posti in un’altra area della città.

La sua battaglia per velocizzar­e il sistema coincide con quelle delle altre società: «Nonostante i progressi, restano troppe incertezze. Nel nostro caso l’ampiezza e l’indetermin­atezza del vincolo culturale è eccessiva. Ma abbiamo fiducia nelle prossime iniziative a beneficio del sistema calcio e di tutti gli stadi, non solo del nostro». Anche perché la pazienza di chi arriva dagli Usa carico di aspettativ­e non è infinita.

De Siervo: «È un tema non più rinviabile, il governo deve semplifica­re le norme»

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