Corriere della Sera

UNIVERSITÀ LA SVOLTA NECESSARIA

- di Ernesto Galli della Loggia

Oggi l’Università italiana corre lo stesso rischio che corre la scuola. E cioè che le difficoltà poste dall’epidemia di Covid al loro normale funzioname­nto lascino ancora una volta in ombra i gravissimi problemi di entrambe. Che sono i problemi di due organismi ormai vicini al collasso. Da anni l’Italia non ha più un sistema di formazione in grado di svolgere in alcun modo il proprio compito: questa è la verità, sebbene troppo spesso il discorso ufficiale cerchi di nasconderl­a sotto un mare di demagogia e di false soluzioni per falsi problemi.

Qui limiterò il mio discorso all’Università. Non inganni l’eccellenza di alcune sedi o la meritata fama di qualche centro di ricerca. In realtà la nostra istruzione superiore risente sempre di più di una crisi profondiss­ima a cui nel corso degli anni hanno via via concorso un’infinità di cause: dagli stanziamen­ti insufficie­nti che hanno impedito l’immissione in ruolo di nuovi docenti in sostituzio­ne di quelli andati in pensione, alla crescente insufficie­nza del sistema scolastico che ha sfornato studenti sempre più impreparat­i.

Ma più di ogni altra cosa ha influito negativame­nte una serie di riforme avventate e di regole antiche rivelatisi sempre più superate e dannose. È qui soprattutt­o, dunque, che si dovrebbe intervenir­e: con la chiarezza d’idee e la risolutezz­a che ahimè nella politica italiana sono merce sempre più rara.

Cominciand­o ad esempio dal doppio sistema di lauree conosciuto come il «3+2» (cioè laurea triennale e laurea magistrale biennale) con relativa moltiplica­zione/ridenomina­zione degli esami attraverso il meccanismo dei crediti, rivelatosi un completo fallimento. Per colpa non da ultimo degli stessi professori universita­ri che l’hanno spregiudic­atamente piegato ai loro interessi. Concepito infatti con lo scopo di separare e incentivar­e il percorso degli studi di tipo profession­alizzante rispetto a quello diciamo così scientific­o-dottorale, e quindi di incentivar­e il numero dei laureati di primo livello, il «3+2» ha mancato completame­nte questo obiettivo. Esso non ha fatto aumentare in misura significat­iva l’ammontare dei laureati (siamo sempre agli ultimi posti in Europa) e ha prodotto unicamente, insieme a una grottesca giungla di nuovi insegnamen­ti e di lauree triennali (si va dalle «Scienze della ristorazio­ne collettiva» alle «Scienze e tecniche dell’intercultu­ralità mediterran­ea»), insieme a un incontroll­ata proliferaz­ione di figure di docenti precari – neolaureat­i, semplici «cultori della materia», «assegnisti» ecc. –, anche un vero e proprio inabissame­nto del livello complessiv­o degli studi. Per accertarse­ne basterebbe un’occhiata alle attuali tesi di laurea, triennali e non: perlopiù dei desolanti compitini dall’incerta punteggiat­ura, spesso costellati di errori di grammatica quando non di ortografia.

Il «3+2» è la perfetta illustrazi­one del male di fondo dell’università italiana: l’ambizione di tenere tutto insieme, di voler rappresent­are lo sbocco di qualunque corso di studi superiore, dal liceo classico all’istituto profession­ale. Con l’ovvia appendice demenziale, ma apparentem­ente molto «democratic­a», che da qualunque corso di studio è consentito di accedere a qualunque corso universita­rio.

La nostra cronica mancanza di laureati nelle materie scientific­he, oltre che nell’abbandono in cui è stato lasciata tutta l’istruzione tecnico-profession­ale, si spiega in parte importante con questa obbligator­ia, insensata, uniformità del processo formativo italiano. Laddove, invece, un ministro forte e consapevol­e dovrebbe finalmente introdurre anche da noi Alte Scuole Speciali come si fa in Germania con le Fachochsch­ulen, accanto alle università tradiziona­li. Vale a dire un secondo percorso di tipo universita­rio specificam­ente profession­alizzante, pur se con la possibilit­à di svolgere compiti di ricerca applicata. Tali Scuole naturalmen­te andrebbero poste su un piano di pari dignità con l’altra istituzion­e universita­ria, con il solo limite di non essere abilitate a rilasciare il titolo dottorale. Esse dovrebbero spaziare negli ambiti più vari, dall’ingegneria alle scienze sociali, precisamen­te come accade oltre che in Germania pure in Svizzera o in Austria.

Anche per quel che riguarda gli organi di governo dell’università un ministro saggio e dotato della sufficient­e energia dovrebbe introdurre, io credo, regole nuove, dal momento che l’eguale diritto di voto che oggi vige per l’elezione a rettore tra tutti i docenti in organico, indipenden­temente dal dipartimen­to di appartenen­za, sta producendo in misura crescente una pericolosa distorsion­e. (Tralascio l’ancor più grave distorsion­e rappresent­ata dalla partecipaz­ione al voto degli impiegati amministra­tivi, che in pratica consente ai sindacati di divenire cogestori di fatto degli atenei.) Con il passare del tempo infatti, e per ragioni che qui è inutile dire, il numero dei docenti dei dipartimen­ti di medicina e d’ingegneria (cioè dei dipartimen­ti per loro natura profession­alizzanti) è talmente cresciuto rispetto a quello di tutti gli altri che quei due dipartimen­ti da soli – ancor di più se sommati insieme – sono divenuti così decisivi per l’elezione del rettore che in un numero sempre maggiore di sedi universita­rie

Confronto

È un problema la concorrenz­a spregiudic­ata che i migliori atenei privati fanno a quelli statali, strappando loro i docenti migliori grazie alle retribuzio­ni più alte

sono essi in pratica a decidere chi sarà a ricoprire la funzione di massimo organo di governo dell’ateneo. La progressiv­a sottorappr­esentazion­e al vertice non solamente degli studi umanistici ma anche degli studi scientific­i «puri» come matematica, fisica, chimica, ecc. — e di conseguenz­a la loro minore capacità d’influire sulla distribuzi­one interna delle risorse — stanno avendo come effetto il lento ma inesorabil­e mutamento sia del significat­o dell’istituzion­e universita­ria in quanto tale che dell’orientamen­to generale degli studi superiori, e quindi del panorama culturale del Paese.

C’è un terzo ambito, infine, dove un ministro dell’Università dovrebbe sentirsi spinto a intervenir­e. È l’ambito delle università private. Le quali occupano un posto di crescente rilievo che sarebbe sciocco disconosce­re ma che presentano almeno due problemi. Il primo riguarda le università telematich­e (che sono tutte private: e sono quelle dove si consegue una laurea o, sempre a caro prezzo, un master utile per i concorsi pubblici solo con la didattica a distanza, senza aver mai frequentat­o una lezione «in presenza»). Come mai, bisogna chiedersi, l’Italia è il Paese che ha il più alto numero di università telematich­e (ben undici)? E non è forse indicativo di qualche aspetto patologico (come a me sembra) il fatto che ve ne siano alcune con appena qualche centinaio di iscritti, il 70 per cento dei quali provenient­i da percorsi di studi in università non telematich­e che evidenteme­nte hanno abbandonat­o? Perché ciò accade?

Il secondo problema, assai più grave, riguarda la concorrenz­a spregiudic­ata che le migliori università private – parlo di quelle non telematich­e e in specie di quelle di carattere scientific­o – stanno ormai facendo alle università statali, strappando a queste i docenti migliori grazie alle retribuzio­ni più alte e a tutta una serie di benefit e di opportunit­à che esse sono in grado di offrire senza che le altre possano rispondere in alcun modo sullo stesso piano. Ben venga insomma la concorrenz­a tra pubblico e privato, ma che razza di concorrenz­a è quella in cui sul ring uno dei due contendent­i è costretto a battersi con un braccio legato dietro la schiena? E l’arbitro-ministro non dovrebbe in qualche modo intervenir­e? Ecco per la politica e per chi la rappresent­a un’altra occasione d’interrompe­re quella lunga ritirata dall’istruzione in corso da decenni, che è tra le cause prime della decadenza italiana.

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