«Imagine» finisce nell’arena politica
Effettivamente l’inglese ti cambia. Ci sono canzoni che sembrano belle, epiche, indimenticabili. E poi basta tradurre o farsi tradurre il testo, che ci era completamente sfuggito nell’estasi musicale, per capire che no, non è la nostra cultura, e insomma, come si dice oggi, «quelle parole non mi rappresentano». Si capisce dunque che, a furia di canticchiare Imagine sotto la doccia, a due donne di destra come Ceccardi e Meloni non sia venuto in mente prima, nel mezzo secolo trascorso dall’incisione del disco, che si trattava di un testo pericolosamente cosmopolitico e irenista. «Imagine there’s no countries» non suona effettivamente bene alle orecchie di una sovranista; e per giunta «no religion too». Senza dire che la frase «all the people sharing all the world» è chiaramente indice di una deriva «mondialista» ante litteram, visto che è stata scritta prima della mondializzazione. Si vede che la destra italiana non ha altro a cui pensare. Solo che nel ruolo di ideologo della sinistra globalista il ragazzo che quando compose Imagine aveva trent’anni è vagamente improbabile. Oltre che un sognatore («You may say I’m a dreamer»...), era un tipo alquanto imprevedibile, ondivago e provocatorio, e forse anche per questo è finito nel mirino di un pazzo (a proposito, l’assassino di Lennon fu trovato dalla polizia mentre, tranquillamente seduto sul marciapiedi del Dakota Building, leggeva Il giovane Holden di Salinger, anche quello un libro il cui testo inglese meriterebbe una riconsiderazione postuma perché tanto «identitario» non mi pare). A discolpa dell’imputato, morto quarant’anni fa, e solo per riconciliare la destra italiana con un musicista in definitiva non inferiore a Battisti, vorremmo perciò segnalare anche una sua canzone che, se tradotta, potrebbe in fin dei conti piacere anche alle sovraniste dei nostri giorni, che si intitolava Revolution e nella quale Lennon condannò il ‘68 politico e violento: «Dici di volere una rivoluzione/ ma quando parli di distruzione/ sappi che non puoi contare su di me». E quanto alla sua sospetta appartenenza alla «cultura dei diritti», sarebbe meglio non dimenticare quell’altra canzone, Run for your life, in cui, agli albori della minigonna, faceva l’apologia del delitto d’onore: «Preferirei vederti morta, piccola/ piuttosto che con un altro uomo/ sai che sono un ragazzo malvagio/ farai meglio a correre per la tua vita, bambina...». Insomma, l’uomo fu complesso: capita spesso agli artisti. E a meno di non voler lanciare una versione canterina e di destra della «cancel culture», bruciando le registrazioni di Imagine in tutte le radio private e pubbliche del Paese, non resta che chiudere gli occhi, dimenticare l’inglese, e abbandonarsi alle note di una delle canzoni più magnificamente smielate della storia della musica: «I hope one day you will join us».