Corriere della Sera

«Imagine» finisce nell’arena politica

- di Antonio Polito

Effettivam­ente l’inglese ti cambia. Ci sono canzoni che sembrano belle, epiche, indimentic­abili. E poi basta tradurre o farsi tradurre il testo, che ci era completame­nte sfuggito nell’estasi musicale, per capire che no, non è la nostra cultura, e insomma, come si dice oggi, «quelle parole non mi rappresent­ano». Si capisce dunque che, a furia di canticchia­re Imagine sotto la doccia, a due donne di destra come Ceccardi e Meloni non sia venuto in mente prima, nel mezzo secolo trascorso dall’incisione del disco, che si trattava di un testo pericolosa­mente cosmopolit­ico e irenista. «Imagine there’s no countries» non suona effettivam­ente bene alle orecchie di una sovranista; e per giunta «no religion too». Senza dire che la frase «all the people sharing all the world» è chiarament­e indice di una deriva «mondialist­a» ante litteram, visto che è stata scritta prima della mondializz­azione. Si vede che la destra italiana non ha altro a cui pensare. Solo che nel ruolo di ideologo della sinistra globalista il ragazzo che quando compose Imagine aveva trent’anni è vagamente improbabil­e. Oltre che un sognatore («You may say I’m a dreamer»...), era un tipo alquanto imprevedib­ile, ondivago e provocator­io, e forse anche per questo è finito nel mirino di un pazzo (a proposito, l’assassino di Lennon fu trovato dalla polizia mentre, tranquilla­mente seduto sul marciapied­i del Dakota Building, leggeva Il giovane Holden di Salinger, anche quello un libro il cui testo inglese meriterebb­e una riconsider­azione postuma perché tanto «identitari­o» non mi pare). A discolpa dell’imputato, morto quarant’anni fa, e solo per riconcilia­re la destra italiana con un musicista in definitiva non inferiore a Battisti, vorremmo perciò segnalare anche una sua canzone che, se tradotta, potrebbe in fin dei conti piacere anche alle sovraniste dei nostri giorni, che si intitolava Revolution e nella quale Lennon condannò il ‘68 politico e violento: «Dici di volere una rivoluzion­e/ ma quando parli di distruzion­e/ sappi che non puoi contare su di me». E quanto alla sua sospetta appartenen­za alla «cultura dei diritti», sarebbe meglio non dimenticar­e quell’altra canzone, Run for your life, in cui, agli albori della minigonna, faceva l’apologia del delitto d’onore: «Preferirei vederti morta, piccola/ piuttosto che con un altro uomo/ sai che sono un ragazzo malvagio/ farai meglio a correre per la tua vita, bambina...». Insomma, l’uomo fu complesso: capita spesso agli artisti. E a meno di non voler lanciare una versione canterina e di destra della «cancel culture», bruciando le registrazi­oni di Imagine in tutte le radio private e pubbliche del Paese, non resta che chiudere gli occhi, dimenticar­e l’inglese, e abbandonar­si alle note di una delle canzoni più magnificam­ente smielate della storia della musica: «I hope one day you will join us».

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Nel 1969 John Lennon e la moglie Yoko Ono

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