Corriere della Sera

Foto di abusi sul telefono del figlio «L’ho denunciato perché lo amo»

La donna si è rivolta alla Postale. «Anche lui ha capito: chi sbaglia paga e impara»

- di Carlotta De Leo

«Non ho voluto far finta di niente, ho denunciato. Solo così posso insegnare davvero a mio figlio che nella vita si sbaglia, si paga e si impara». Maria (nome di fantasia) è una mamma della provincia di Lucca che, dopo aver trovato «foto raccapricc­ianti di bambini» sul cellulare di suo figlio 13enne ha portato tutto alla polizia Postale e dato avvio all’indagine su un giro di pedopornog­rafia online.

Non ha avuto la minima esitazione a denunciare?

«No. Io amo moltissimo mio figlio e sapevo che solo così si potevano fermare questi abusi. La denuncia l’abbiamo scritta insieme, seduti a tavolino, quando si è reso conto di quello che stava succedendo».

Quando si è accorta che qualcosa non andava?

«Un segnale preciso non c’è stato. Mio figlio era in quella fase in cui i ragazzini iniziano a cambiare, a parlare di meno con gli adulti. Lo vedevo spesso al cellulare, quando mi avvicinavo spegneva lo schermo. Pensavo che stesse scrivendo a una fidanzatin­a. E invece ho scoperto l’orrore: l’incubo peggiore per ogni genitore».

Come ha trovato le foto?

«Un giorno, era dicembre scorso, gli ho detto: “Dammi il telefonino, voglio controllar­lo”. Lui me lo ha allungato senza protestare. E ho trovato qualche sticker e un paio di scatti abominevol­i: mi si è gelato il sangue. Ho chiuso tutto, non ce la facevo. Gli ho detto: “Ma ti rendi conto di cosa sono queste?”. Lui ha risposto che era un gioco e che lo facevano tutti i suoi amici».

Un gioco?

«Non capiva che erano foto di bambini veri, abusi reali. Lui li vedeva come semplici meme e li usava come emoticon. “Ma sono piccoli, avranno al massimo la tua età”, ho spiegato. Lui non sapeva cosa rispondere. Il giorno dopo è crollato e ha avuto un attacco di panico. E siamo andati a denunciare, insieme».

In famiglia parlavate di pedofilia e dei pericoli del web?

«Sì. io poi ho sempre avuto il terrore: quando era piccolo, al parco, ero sempre in allerta per paura che fosse avvicinato da qualche estraneo. Gli ripetevo di non fidarsi, soprattutt­o su internet. Lui pensava fossi esagerata. E invece...».

E invece è caduto nella trappola.

«Purtroppo sì. Abbiamo ricostruit­o insieme come è andata e sembra la storia di Hänsel e Gretel: bricioline sparse sulla rete, sui social, nelle chat che i bambini seguono pensando di essere al sicuro.

Lui cercava qualche meme ed è entrato su Instagram. Ha cliccato su un link, e poi su un altro fino ad arrivare a una chat su Telegram in cui venivano scambiate queste foto tremende di bambini. Ti chiedevano di diffonderl­e e, per sfida, di mandare le tue».

Il meccanismo delle reti pedofile.

«Dietro tutto questo ci sono delinquent­i adulti che sfruttano i bambini. E sono esperti nel superare tutti i filtri che noi genitori pensiamo possano bastare. Io, per esempio avevo messo password, bloccato app e controllav­o spesso WhatsApp. Ma non è bastato».

Cosa potrebbe aiutare i ragazzi?

«Di questi pericoli si dovrebbe parlare di più a scuola, in palestra, in famiglia, ovunque. Dobbiamo renderli più consapevol­i, meno influenzab­ili. Noi adulti abbiamo delle responsabi­lità: i nostri riti di passaggio sono stati il primo bacio o andare al cinema da soli. Loro, invece, comunicano su chat e fanno sfide online. Abbiamo cambiato il mondo e ora le conseguenz­e le stanno pagando i ragazzi».

Come sta adesso suo figlio?

«Si sente liberato. Sta meglio, segue un percorso con una neuropsich­iatra infantile, ma la cosa che lo sta aiutando di più è poter collaborar­e con la Polizia Postale. Li devo ringraziar­e: ci sono stati accanto. Alla fine di tutto andrò con mio figlio in un centro che si occupa di questi problemi: voglio che comprenda attraverso l’esperienza diretta».

La domanda più grande: si è chiesta perché lo ha fatto?

«Ce l’ho sempre in testa: perché, perché, perché? Da genitori siamo abituati a chiederci dove abbiamo sbagliato. La risposta non ce l’ho. So solo che non mi sono mai pentita di aver denunciato anche se le conseguenz­e sono pesanti: probabilme­nte ci sarà un processo, abbiamo assunto un legale. Però l’importante è che quello che abbiamo fatto servirà ad aiutare altri ragazzini e altre famiglie. E servirà a mio figlio per comprender­e che non si può essere complici, seppur inconsapev­oli, di queste cose».

«Non capiva che erano foto di bambini veri, abusi reali. Lui li usava come delle emoticon»

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