Dai Greci a Pollock (e ritorno) La vertigine dell’arte
L’anticipazione Fidia, il Medioevo, la Pop Art: esce oggi per Solferino il viaggio di Philippe Daverio nella storia dei grandi capolavori
La natura magmatica di questo libro, che esce oggi per Solferino, è dichiarata sin dal titolo in copertina: Racconto dell’arte occidentale. Dai Greci alla Pop Art. La semplice definizione di «arte occidentale» è sufficiente a generare quella leggera vertigine che i «daveriani» ortodossi conoscono bene: guai a cercare un filo che tenga insieme questa ebollizione continua di nomi, quadri, statue, città, filosofi, musicisti, copisti anonimi e sacerdoti.
La storia dell’arte imbastita da Philippe Daverio possiede la stessa beffarda coerenza di certi dipinti di Giorgio de Chirico: tutto sembra perfettamente lineare ma basta che l’occhio si soffermi un po’ più a lungo su un dettaglio apparentemente insignificante perché affiori l’ironia del tutto, dunque il controvento, il rovesciamento di ogni certezza. Una rottura? Al contrario: sono questi inciampi di senso che costituiscono l’amalgama dechirichiana.
Proprio come nei racconti di Daverio, dove si comincia — per restare in tema — con la nascita di de Chirico a Volo, in Tessaglia, e ci si ritrova a parlare di René Guénon, esoterista e frammassone nato a Blois, autore de Il re del mondo. Che c’azzecca? A unire i due è un filo sottilissimo di ricerca metafisica, pittorica nel primo e letteraria nel secondo.
Ma il bello dei libri di Daverio è la grande libertà compositiva che viene lasciata al lettore: «Il re del mondo» non vi dice nulla? La canzone di Franco Battiato nasce dalle riflessioni generate dai libri di Guénon e subito vengono in mente le copertine color pastello della Adelphi (casa editrice che ha reso quasi popolare il pensatore) e poi come si fa a non pensare al giallo mediterraneo di de Chirico? Cerchi che si chiudono e che si riaprono e ci vuole una certa dimestichezza con il senso pratico per ricordarsi che stiamo pur sempre parlando di «arte occidentale».
Eppure è così. Se davvero dobbiamo cercare una tesi di fondo in questo trascinante viaggio nelle nostre radici potremmo trovarla nelle infinite gemmazioni (soprattutto orientali) che hanno contaminato e dunque fertilizzato la nostra cultura. Agostino di Ippona venne a Milano per farsi battezzare da Ambrogio, originario della germanica Treviri.
Un asse che dall’Africa settentrionale passa per l’Italia e arriva al Nord: il pensiero «occidentale» non sfugge a queste geometrie, esattamente come il dolore che Antonello da Messina riesce a riprodurre nelle sue figure si giova anche di tecniche apprese nel corso dei suoi viaggi, molti documentati e molti altri ancora avviluppati nel mistero.
Ai più attenti non sfuggirà un tentativo vagamente enciclopedico in questa storia dell’arte, cioè l’indice, rispettoso di un criterio cronologico: i Greci, i Romani, il Medioevo e così via. Ma attenzione: con il suo sarcasmo alsaziano-milanese, anche qui Daverio non smette di divertirsi e di divertire. Nel senso letterale del termine, vale a dire divertere, volgere altrove l’attenzione, nell’atto nobile del divagare.
È partendo da Nietzsche che in questo libro capiremo Fidia. Solo studiando il carattere espressionista del dionisiaco e quello lineare dell’apollineo si arriva a cogliere la compiutezza della statuaria greca, il cui humus culturale si nutriva di numeri. Come la musica: chi conosce l’autore sa quanto lui ami gli spartiti e quella misteriosa alchimia tra la matematica e i suoni. A questo punto chi ci vieta di sconfinare con le divagazioni fino a Kandinsky, che «vedeva» la musica?
O a Paul Klee, per quelli che riescono a entrare nel sistema quantico di Daverio, l’unico che permette arditi salti senso-temporali. Per esempio nel gustosissimo (nonostante il titolo un po’ scontato) capitolo «Firenze, culla del Rinascimento»: passando da Balzac a «quella bizzarra di George Sand che farà girare la testa a Fryderyk Chopin», lo storico dell’arte si concentra sulla parola «Rinascimento» e sul ruolo che questa ha avuto nel plasmare una certa cultura europea, fungendo da filo rosso dei colti prima nei salotti e poi nelle aule universitarie. E in ogni paragrafo l’autore sembra dirci: non cercate l’erudizione scolastica. Non cercate etichette critiche nelle storie, per esempio, di Vermeer, ma rintracciate piuttosto la società che ne ha permesso lo splendore. Le ricche province fiamminghe, il concetto di lavoro come redenzione terrena. Eppure in questo libro la natura di quelli che oggi chiamiamo
«paesi frugali» la si capisce bene non tanto nei paragrafi su Vermeer quanto — per contrapposizione — in quelli sulla stagione di Luigi XIV: «Chi per nascita o danaro — scrive Daverio — era escluso dall’olimpo dorato di Versailles ... acquistava a caro prezzo la carica nella magistratura e nel fisco». L’Europa si coglie nelle differenze, come aveva intuito Ortega Y Gasset.
Si arriva alla fine dopo aver attraversato, come in una personalissima Odissea, una costellazione di personaggi e opere disposti su una immaginaria tela. Potrebbe essere una scena contadina di Bruegel il Vecchio ma potrebbe assomigliare anche a un dripping di Pollock. Di certo ci seduce. Come diceva Sergej Bulgàkov: «L’arte conosce, come l’economia, la tentazione di esercitare un’azione magica sul mondo».