Una famiglia, tre angoli di mondo Storie di Sicilia, Milano, New York
Romanzi In «Sangue e Pane» Vito Ribaudo segue per Morellini le vicende di tre generazioni
Mistretta, New York, Milano. Tre angoli di mondo, proprio come quelli che si celano nell’antico nome greco della Sicilia («Trinacria»), punto di partenza e insieme d’arrivo dell’epopea della famiglia Vastiani, al centro del nuovo romanzo di Vito Ribaudo, Sangue e Pane, pubblicato da Morellini. Il manager milanese (di origini siciliane), che all’attività di direttore Risorse umane di Rcs MediaGroup Italia affianca da tempo la passione per la scrittura, torna in libreria a cinque anni esatti da Una grande opportunità (Rizzoli) e a due da L’Elbano (Morellini).
Sangue e Pane (scritto con la P maiuscola a indicare il cognome della mamma del capostipite dei Vastiani, in un gioco costante di rimandi al principe degli alimenti e in associazione anche con l’altro elemento cardine del sacrificio eucaristico) è un romanzo breve quanto denso, che già dall’impianto — diviso in tre sezioni — rimarca il valore simbolico del numero perfetto per eccellenza.
Tre sono i luoghi in cui si svolge la storia; tre i tempi in cui si sviluppa (gli anni Trenta in Sicilia, il secondo dopoguerra sino alla fine degli anni Sessanta nella Grande Mela, i cinquant’anni successivi nel capoluogo lombardo); tre le generazioni principali protagoniste delle vicende illustrate.
La narrazione muove dalla «perla» siciliana dei monti Nebrodi, la cittadina di Mistretta, luogo natio di Isidoro Vastiani, figlio di Vito e Peppina Pane, costretto a imbarcarsi per l’America avendo osato infrangere il codice non scritto del riserbo isolano formulando domande inopportune e palesando curiosità ritenute pericolose in un mondo di sudore, fatica, silenzi e orizzonti ristretti («per lavorare la terra — gli spiegherà lo zio — il cervello se ne deve stare leggero»). Ci si sposta quindi a New York, dove il giovane Isidoro si rifà una vita, mettendo su famiglia con un’immigrata irlandese e donando alla schiatta dei Vastiani i figli Juliet e Matthew i cui destini prenderanno strade radicalmente diverse.
Il terzo tempo del romanzo è quindi quello che si svolge dai primi anni Settanta fino al 2014 a Milano, città in cui Juliet si trasferisce con il marito David e dove nasce il figlio Vincent, protagonista di una rapida quanto imprevedibile — e inattesa negli esiti — «arrampicata» sociale. È, quest’ultima, la parte migliore del romanzo: le vicende familiari incrociano quelle degli anni bui del terrorismo, estremista prima e islamista poi, in una miscela ben riuscita fra pubblico e privato e con una convincente carica emotiva che accompagna il lettore con discrezione ed empatia nella sfera domestica più intima dei protagonisti, ripercorrendo insieme l’evoluzione della città meneghina e dell’Italia tutta attraverso i «ruggenti anni Ottanta» e fino alla crisi della seconda Repubblica.
La scrittura di Ribaudo, sempre attenta, curata e vigilata, si distende in queste pagine e supera il lirismo descrittivo talora eccessivo della prima sezione (di indubbia suggestione ma piuttosto lenta, priva com’è di dialoghi, quasi a voler emulare i silenzi della società rurale isolana di inizio Novecento), scartando anche rispetto alla parte centrale del romanzo che invece risente dell’influsso di certa letteratura (e cinematografia) un po’ stereotipata sugli Usa lanciati nella corsa sfrenata verso il progresso dopo il bagno di sangue del secondo conflitto mondiale. Gli «interni» milanesi sul rapporto fra Juliet divenuta ormai nonna, il figlio Vincent e la nipote Beatrice regalano momenti di grande intensità e denotano la crescita stilistica di Ribaudo, che in questa dimensione intima e personale sembra trovare la sua cifra più vera e convincente.