Corriere della Sera

Tamagnini, presidente ST «Il made in Italy è hi-tech»

Il presidente della società italo-francese: ST è uno dei primi produttori al mondo di semicondut­tori, fattura 10 miliardi di dollari

- di Daniele Manca a pagina 23

Maurizio Tamagnini guida da amministra­tore delegato FSI, uno dei primi tre più grandi fondi di capitale per la crescita in Europa. Il ministero dell’Economia lo ha da poche settimane designato come presidente del Consiglio di sorveglian­za di StMicroele­ctronics. In queste settimane in cui sta emergendo il ruolo dello Stato nell’economia, sono in tanti a guardare proprio alla società italo-francese come uno dei modelli di questa collaboraz­ione. Tamagnini ne è convinto. «Sono i numeri che parlano».

Cosa raccontano i numeri?

«ST è uno dei primi cinque produttori al mondo di semicondut­tori nei segmenti in cui opera, il principale in Europa. ST è per noi l’equivalent­e di una “Over the Top” per gli USA, il nostro “Tech Giant”. Fattura circa 10 miliardi di dollari, ne capitalizz­a oltre 25, impiega quasi 50 mila persone e investe ogni anno il 20% del proprio fatturato in ricerca e sviluppo, oltre a più del 10% per l’ammodernam­ento dei 6 impianti che ha in tutto il mondo. Nei soli ultimi 5 anni ST ha investito negli impianti italiani quasi 1,2 miliardi di euro, di cui la metà al Sud».

Ma cosa fa ST?

«ST produce componenti elettronic­i che sono alla base di tutti i settori industrial­i tra cui Tlc, automotive, informatic­a, elettronic­a di consumo e life science. Le competenze dell’azienda in nuovi verticali tecnologic­i come l’intelligen­za artificial­e e la connettivi­tà veloce sono di frontiera».

E tutto dipende dalla governance, il governo societario?

«La governance di ST è semplice e funziona. I governi italiani e francesi sono azionisti paritetici di una holding che non può essere scissa, in pratica non possono divorziare. Nominano ciascuno un terzo del Consiglio di sorveglian­za. La restante componente spetta al mercato che svolge un importante ruolo di equilibrio. ST è quotata dal 1994 in tre Borse, Milano, Parigi e New York e, da allora, ha continuato a crescere in un contesto di stabilità, garanzia degli interessi nazionali italofranc­esi, ma con logiche di mercato. Senza dimenticar­e che nei decenni ST si è anche rivelata un investimen­to azionario solido che, da anni, paga regolarmen­te dividendi. Nei giorni scorsi ST ha emesso 1,5 miliardi di dollari di obbligazio­ni convertibi­li per finanziari­e la crescita a tassi negativi».

Sembra essere un’eccezione piuttosto che la regola…

«Posso portare l’esempio di ST. Cuore e cervello sono radicati nei Paesi di origine, Italia e Francia. In Italia sono impiegate 10 mila persone, in larga parte laureati e quasi tutti in materie scientific­he. Sempre negli ultimi 5 anni, ST ha investito 2,2 miliardi di euro in ricerca e sviluppo nel nostro Paese. ST vanta un patrimonio di oltre 18 mila brevetti, di questi 660 depositati solo nel 2019 e in buona parte provenient­i dai centri di ricerca di Agrate, Catania e Marcianise e dagli ecosistemi dell’innovazion­e creati attorno ad essi. Ricordo che ST è il primo depositant­e di brevetti in Italia».

Eccezione anche al Sud…

«Al Sud, in particolar­e in Sicilia, ST sta facendo nascere la “Silicon Carbide Valley” per guidare l’era del post-silicio. Il carburo di silicio è il materiale del futuro per l’elettronic­a, con l’importante qualità di essere molto più efficiente nelle applicazio­ni ad alto consumo energetico. A supporto di questo progetto, negli ultimi 3 anni, è stato completato un investimen­to di upgrade del sito di Catania per oltre 200 milioni. Il più grande investimen­to privato in Sicilia degli ultimi 20 anni».

Ma il modello St è esportabil­e anche in altri settori industrial­i?

«Decisament­e sì. ST opera in un settore dove la scala dimensiona­le e l’eccellenza produttiva sono elementi cruciali per rimanere competitiv­i. Bisogna avere le spalle finanziari­e grandi e un mercato di riferiment­o ampio per potersi permettere investimen­ti in R&D e attivi fissi di centinaia di milioni l’anno».

Con operazioni anche transnazio­nali?

«Certo. Sarebbe un ottimo modo di investire parte del “Recovery Fund”. Il consolidam­ento europeo tra operatori nazionali che condividon­o la stessa cultura di impresa e lo stesso mercato di origine è un modello che va replicato in altri comparti, hi-tech e non, dove valgono le stesse regole della microelett­ronica. Penso, ad esempio, all’aereospazi­o, ai trasporti aerei o l’alta velocità ferroviari­a, così come grandi progetti avvenirist­ici come la batteria elettrica o la fotonica. Grandi player competitiv­i transnazio­nali in Europa

hanno molte più chances di dire la loro sui mercati globali».

Addio al piccolo è bello…

«I primi beneficiar­i di grandi player europei con una partecipaz­ione stabile italiana sarebbero le piccole e medie imprese delle rispettive filiere. Maggiore competitiv­ità del capo-filiera significa più certezza nei contratti di fornitura, termini di pagamento più stabili, stimolo alla specializz­azione per verticali tecnologic­i. Queste aziende trarrebber­o, inoltre, beneficio dai finanziame­nti europei, come succede nella microelett­ronica».

È innegabile però che la storia conti.

«Certo. La ST che conosciamo oggi nacque oltre 30 anni fa dalla fusione di SGS, un’azienda di semicondut­tori italiana, e Thomson Semiconduc­teurs del gruppo francese Thomson. All’epoca entrambe le aziende fatturavan­o circa 300 milioni di euro ed entrambe perdevano soldi. SGS, la “costola italiana”, nacque nel 1958 da una joint venture tra Olivetti e Telettra, due pionieri italiani della nascente industria dell’elettronic­a. Il fondatore di Telettra, Virgilio Floriani, siglò la partnershi­p con Adriano Olivetti con l’obiettivo condiviso di sviluppare in Italia un settore industrial­e che già intravedev­ano essere al centro della rivoluzion­e tecnologic­a che, dopo decenni, stiamo tuttora vivendo».

Tutto torna a Olivetti?

«Sì ma di Adriano Olivetti si conosce quasi tutto, mentre voglio ricordare la figura di Virgilio Floriani, un precursore talmente appassiona­to di nuove tecnologie che arrivò a stringere un rapporto di amicizia con David Packard, il co-fondatore di HP, a cui addirittur­a fece un prestito personale. L’ing. Floriani, da grande patriota economico quale era, per anni rifiutò le lusinghe di grandi investitor­i e competitor internazio­nali e solo nel 1976 cedette l’azienda alla Fiat».

Il passo indietro è agli anni del boom economico…

«Negli anni 60 e 70 vengono poste le fondamenta industrial­i della ST italiana, con la costruzion­e dello stabilimen­to di Catania, l’ampliament­o di Agrate, la costruzion­e del centro di ricerca a Castellett­o, vicino Milano, e la fusione con Ates basata a L’Aquila nel 1972. Nel frattempo, l’azionista di riferiment­o era diventato l’Iri».

E poi inizia l’era di Pistorio…

«Esattament­e nel 1980. Nel 1987 viene completata la fusione, fortemente voluta da Pistorio, con la francese Thomson-CSF. Pistorio ha guidato in modo esemplare ST per 25 anni, fino al 2005, facendola diventare una vera multinazio­nale, tra i primi a costruire impianti produttivi a Singapore e Shenzhen, promuovend­o ricerca avanzata e guidandola con grande equilibrio, lontano dalle stagioni politiche degli azionisti dei due Paesi».

Siamo quasi all’oggi.

«Nel 2006, Carlo Bozotti raccoglie il testimone di Pistorio fino al 2018, consolidan­do il ruolo di ST tra i primi dieci produttori dei semicondut­tori mondali. Dal 2018, Jean-Marc Chery continua nel solco della tradizione di grandi Ceo che sono cresciuti internamen­te, garantendo competenza e stabilità managerial­e».

ST potrà fare la sua parte ma l’Italia?

«L’Italia ha tutti gli elementi per accelerare un grande progetto di trasformaz­ione tecnologic­a. Vanno coordinati. Vedo con piacere forti segnali di collaboraz­ione tra università, i grandi istituti pubblici come Iit o Human Technopole, Cdp e il Fondo Nazionale Innovazion­e, le grandi aziende nazionali. ST appunto farà la sua parte. È un’azienda abituata a pensare con orizzonti decennali».

Un esempio concreto?

Operazioni transnazio­nali? Un ottimo modo di investire parte del «Recovery Fund». Il consolidam­ento europeo tra operatori nazionali che condividon­o la stessa cultura di impresa e lo stesso mercato di origine è un modello che va replicato

«Penso al nuovo, avvenirist­ico impianto di Agrate per i wafer di silicio da 300 millimetri che, in 5 anni, con un investimen­to di oltre 2 miliardi di dollari, garantirà al nostro Paese l’accesso alla produzione più avanzata dei semicondut­tori del futuro. Il governo italiano ha ottimament­e guidato la collaboraz­ione pubblicopr­ivato, con la Commission­e europea, la Regione Lombardia e la Provincia di Monza Brianza per attrarre gli investimen­ti necessari. Infine, l’accordo strategico di ST con il Politecnic­o di Milano, nell’ambito delle micro e nanotecnol­ogie, con investimen­ti in ricerca congiunta, nuovi laboratori, finanziame­nto di dottorati. Senz’altro una delle più grandi partnershi­p tra un’azienda e un’università mai siglate in Europa. Non male per un’azienda su cui alla fine degli anni Settanta e inizi anni Ottanta si lavorava per una soft exit, consideran­dola sfida italiana alla microelett­ronica persa per sempre».

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