Corriere della Sera

«Eravamo gli unici a volere quelle chiusure Per convincere il ministro dovevamo forse urlare?»

L’assessore: l’Italia in lockdown grazie a quella riunione

- di Stefano Landi (Afp)

È il 4 marzo. La miccia è già accesa e la bomba sta definitiva­mente per esplodere. I numeri di contagi, ricoveri e decessi lievitano. Al tavolo ci sono il ministro della Salute Roberto Speranza, con tutti i vertici della Regione. C’è il governator­e Attilio Fontana con l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Si parla della possibilit­à di chiudere a chiave i Comuni di Alzano e Nembro come nuova zona rossa, visto il tragico progredire dell’epidemia, che in pochi giorni scavalca i numeri della zona già chiusa nel Lodigiano. Nell’audio inedito pubblicato ieri dal Corriere, Fontana e Gallera chiedono al Governo di decidere sulla zona rossa.

Gallera, perché non avete battuto i pugni sul tavolo pretendo quella decisione se vi sembrava la più urgente?

«Cosa dovevamo fare? Urlare o mettergli le mani addosso?».

Come è nato quell’incontro?

«Vista la gravità del momento ci rendiamo conto che non sarebbe bastato un confronto telefonico con il Governo. Non abbiamo mandato una mail. Abbiamo pregato Speranza di correre qui a Milano».

E lui il 4 marzo si presenta...

«Arriva intorno alle 4 del pomeriggio. Siamo al sesto piano di Palazzo Lombardia, sede della nostra unità di crisi. Gli diamo la mascherina: lui era arrivato senza. La indossa dopo essersi reso conto che noi l’abbiamo tutti. Il nostro tecnico nella task force, Vittorio Demicheli attacca con le slide».

I vostri toni non sembravano perentori…

«Gli abbiamo spiegato la drammatici­tà del momento che a qualcuno a Roma sembrava sfuggire. Speranza è sempre stato il più lucido, serio e corretto. Dopo un’ora e mezza, si alza, promette che si sarebbe confrontat­o subito con il premier e riprende l’aereo».

Voi cosa pensate?

«Pensiamo che entro sera avrebbero annunciato la zona rossa ad Alzano e Nembro. Ci sembrava avesse colto quello che gli avevamo fatto notare. Che serviva un segnale forte, perché da quelle parti la gente continuava ad uscire di casa come se niente fosse».

Invece non succede niente…

«Non subito. Però il giorno dopo arrivano i militari e due giorni dopo, il 7, la decisione di chiudere l’Italia intera. Credo che il lockdown del Paese sia nato grazie a quella riunione».

Imporre la zona rossa era impopolare. Sembra nessuno se ne volesse assumere la responsabi­lità…

«Il 5 marzo gli stessi sindaci della bergamasca invocano misure diverse dalla zona rossa. Altri governator­i come Zaia e Bonaccini erano contrari. A Roma non l’hanno decisa. Credo che Regione Lombardia sia stata l’unica a spingere per quella soluzione. Non avevamo paura di quella responsabi­lità. Anche perché il giorno prima in un incontro con il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro avevamo condiviso i rischi di quel focolaio che stava implodendo».

Tornasse indietro avrebbe forzato quella decisione?

«Ci stavamo rendendo conto che le misure del 1° marzo non bastavano. Abbiamo fatto di tutto per convincerl­i. Poi visto il dilagare dello tsunami, non so se quei due giorni di anticipo sul lockdown del Paese avrebbero cambiato le cose. Però in questi casi la tempestivi­tà è tutto».

Che ricordo ha di quei giorni?

«Gente che mi chiamava 24 ore su 24, le riunioni con qualcuno a cui scappavano rabbia e lacrime. Una lotta incessante, come fosse una guerra. A tratti impotente, contro un nemico che non conoscevam­o».

Si dice però che lei in quei giorni non rispose alle chiamate dell’ospedale di Alzano...

«Non chiamarono me». Dopo 5 mesi è cambiato l’umore?

«Resta la prudenza, ma se qui registriam­o dati migliori che in altre zone d’Italia e soprattutt­o d’Europa significa che le misure che abbiamo adottato e il rispetto di chi le ha applicate hanno pagato».

Tempi

Non so se due giorni di anticipo avrebbero poi cambiato le cose ma la tempestivi­tà è tutto

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