COMPRARE CASA, IL MITO DELLA SICUREZZA
Monopoli, con oltre 700 milioni di partecipanti, è entrato nel Guinness dei primati come il gioco da tavolo più popolare al mondo. Inventato da un’americana all’inizio del secolo scorso, ha sfruttato in modo geniale la passione che, a partire dal dopoguerra, è esplosa per la proprietà immobiliare. Chi di noi non ha mai mosso le pedine su quel quadrato e sognato di comprare Parco della Vittoria o Viale dei Giardini?
Con la maggiore fetta della ricchezza mondiale e oltre il 50% dei prestiti bancari a finanziarlo, il settore immobiliare rappresenta la principale grandezza economica del globo. La passione per il mattone non conosce né incertezze né confini. In America c’è il detto «Sicuro come una casa», in Asia quello del «Mito della casa». Gli italiani non fanno eccezione, anzi. Da noi oltre il 60% della ricchezza privata è costituito da immobili e terreni e la percentuale di famiglie proprietarie di almeno un’abitazione è di circa il 70% — solo gli irlandesi ci superano in Europa.
È lecito chiedersi se tutta questa fiducia, in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di fede, sia stata ben riposta. I numeri, a sorpresa, ci dicono di no.
Nel suo Esuberanza irrazionale, il premio Nobel Robert Shiller ha ricostruito per la prima volta l’andamento dei prezzi delle case negli Stati Uniti dagli inizi del ‘900 a oggi. Il risultato è un grafico con forti fluttuazioni e una crescita modesta (0.3% all’anno) caratterizzata da due grandi rialzi. Quello successivo alla Seconda guerra mondiale, che si consolidò negli anni a venire, e quello degli inizi di questo secolo, dal 1999 al 2007, che fu invece azzerato dallo sboom successivo. I dati europei degli ultimi vent’anni — quelli italiani sono simili — recentemente pubblicati in uno studio della Bce, confermano questo andamento. I prezzi sono praticamente fermi ai livelli di fine anni 90, avendo conosciuto oscillazioni certamente inferiori ma paragonabili a quelle del mercato borsistico. Questo senza includere spese, tasse, e tutti i costi che tipicamente sopportano i proprietari di case e di cui è quasi impossibile tenere il conto.
Ma il modesto apprezzamento è solo una parte della storia. L’altra, ben più rilevante, è legata alle devastanti bolle speculative che l’illusione di un investimento privo di rischio ha generato negli ultimi anni. Quella che scoppiò in Giappone nel 1990 — il quartiere intorno ai giardini della residenza imperiale valeva come l’intera California — inginocchiò un Paese che al tempo era considerato in grado di scavalcare gli Stati Uniti come potenza mondiale. Ancora più grave fu la grande crisi legata ai mutui subprime del 2008 di cui tutt’ora paghiamo le conseguenze. Il copione è sempre lo stesso. Quando il credito bancario va a finanziare beni esistenti (non nuovi) e improduttivi come le case e i terreni nei maggiori centri urbani, è inevitabile che l’eccesso di richiesta si sfoghi sui prezzi creando una bolla destinata a scoppiare. E trasformi Dr. Jekyll in Mr. Hyde.
La domanda nasce allora spontanea. Come fa a resistere intatta una convinzione così oggettivamente infondata? La neuroscienza lo spiega con il funzionamento del cervello e con gli istinti innati dell’essere umano. Cosa c’è di più antico del desiderio di avere un tetto sopra la testa? Gli economisti puntano l’indice verso la tradizionale difficoltà a comprendere la dinamica dei prezzi con e senza inflazione, così che un acquisto di molti anni addietro sembra sempre conveniente rispetto alle valutazioni attuali. Hans Rosling, nel suo bestseller Factfulness, parla della sindrome dell’istinto della linea retta, per la quale siamo portati a pensare che i trend proseguano immutati anche se, nella realtà, sono pochissimi i casi in cui questo accade davvero.
Quale che sia la spiegazione, liberarsi dal mito della casa come investimento sicuro potrebbe portarci a fare scelte diverse e a vivere un futuro migliore. Gli italiani potrebbero riconoscere che le mura non sono sempre un buon affare ma rimangono però molto altro. Una radice, un’autogratificazione per il lavoro svolto, un riconoscimento sociale o il desiderio di lasciare qualcosa che ci ricordi. Questo vuol dire considerarle per quello che sono, un punto di arrivo più che di partenza, inadatto quindi ai giovani che hanno bisogno di essere privi di vincoli per trovare le migliori opportunità di lavoro. Non si getta l’ancora appena fuori dal porto.
Ma è soprattutto la politica che potrebbe e dovrebbe cambiare indirizzo strategico. Dopo decenni in cui l’investimento immobiliare ha goduto, peraltro non solo in Italia, di enormi vantaggi fiscali, è ora di rimettere al centro dell’interesse il lavoro e la generazione di reddito. Rosling dice che per cambiare idee sbagliate è indispensabile avere una cosa, oltre al tempo: i dati.
Bene, se quelli sugli effetti distorsivi che ciclicamente caratterizzano il settore degli immobili non sono sufficienti — in effetti è facile avere opinioni discordanti in un mercato i cui prezzi possono essere molto diversi a livello locale — affidiamoci allora a quelli incontrovertibili e angoscianti pubblicati di recente dall’Istat sul crollo demografico in Italia, ormai un’anomalia a livello mondiale. Prima di continuare a ricercare il consenso dei proprietari di case sarà meglio preoccuparsi di trovare qualcuno che in futuro le abiterà.