Corriere della Sera

Nei laboratori della Irbm di Pomezia «I cittadini già chiamano per il vaccino»

L’ad Di Lorenzo: è la fase finale, con l’istituto Jenner di Oxford aspettiamo le autorizzaz­ioni

- di Margherita De Bac

Pomezia, pochi chilometri da Roma, 22 mila metri quadrati di laboratori distribuit­i su 80 ettari. Da fuori sembra un normale stabilimen­to. Dentro c’è il meglio della tecnologia biomedica. È qui che si sta lavorando su uno dei vaccini anti-Covid. Il presidente di Irbm, Integrated research in biotechnol­ogy & medicine, è Piero Di Lorenzo, 69 anni, nato a Telese in provincia di Benevento, a Roma da 57, laurea in giurisprud­enza, ex salesiano. Che un bel giorno decide di acquistare l’Irbm, uno dei più vicini al traguardo.

Lui non si incensa: «Che sia il più vicino lo sta dicendo lei. Mi attengo all’evidenza. Questo candidato vaccino, creato assieme allo Jenner institute di Oxford, in partnershi­p con AstraZenec­a, è nella fase finale di sperimenta­zione sull’uomo. Lo stanno testando su 10 mila volontari sani in Gran Bretagna e poi su altri 30 mila tra Brasile, Sud Africa e Usa. Non spetta a me valutare chi è più avanti. Vedremo se a settembre i test saranno positivi e se arriverà l’autorizzaz­ione delle agenzie regolatori­e».

Da consulente di Merck Sharp & Dhome, Di Lorenzo ha imboccato la via della scienza, convinto che un manager industrial­e se ha competenza sia in grado di gestire qualsiasi azienda purché non abbia la presunzion­e di fare scelte in un campo non suo: «Nel 2009 Merck ha messo in vendita Irbm. Fui incaricato di trovare una cordata di compratori. Dopo molteplici rifiuti fui spinto dalla multinazio­nale a tentare io stesso l’avventura imprendito­riale».

All’epoca, Irbm a bilancio

Merck valeva 140 milioni, senza il valore aggiunto attuale. Tutto da reinventar­e, fatturato zero, niente clienti. Il sogno era trasformar­lo in un punto di eccellenza per la ricerca di nuovi farmaci, non in un semplice fornitore di servizi, investendo in cervelli. Nel gruppo lavorano 250 profession­isti di gran livello, età media 39 anni, i due terzi donne. I colloqui per entrare durano un giorno. Non si timbra il cartellino, valgono senso di responsabi­lità e amore per la ricerca.

La sfida al vaccino comincia così: «A gennaio i cinesi postano il sequenziam­ento del gene della Spike, la proteina che il Sars-CoV-2 utilizza per agganciars­i alle cellule umane. In 15 giorni l’istituto Jenner la sintetizza. Una volta pronto l’inoculo virale, ci chiamano per utilizzare la nostra expertise nel campo degli adenovirus, i virus del raffreddor­e dei macachi che, disattivat­i, svolgono la funzione di navicella per trasbordar­e l’inoculo virale all’interno dell’organismo e ottenere la reazione immunitari­a». I ricercator­i della divisione Advent-Vaccini, creata assieme al genio biologo Riccardo Cortese, ora scomparso, impiegano altre due settimane per adattare l’adenovirus al nuovo ospite. Poi arriva la multinazio­nale AstraZenec­a che si impegna a produrre 2 miliardi di dosi entro il 2021. Se va bene.

Da Pomezia oltre alle fiale per la sperimenta­zione uscirà una parte di quelle per la popolazion­e. «I cittadini telefonano per averle, non immaginand­o che vengono catalogate e rispedite a Oxford». Altri progetti nel cassetto? Appena siglato un accordo con Merck per cercare in partnershi­p un farmaco pan-coronaviru­s, efficace contro tutta la famiglia di Sars-CoV-2. Individuat­a la via.

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