«Tecnologie green per la ripresa L’Italia può giocare in prima fila»
Cammisecra: Recovery Fund, pronti i progetti Enel. Serve meno burocrazia
Cinquant’anni, nato a Napoli (nel suo ufficio ha sotto vetro le maglie firmate di Insigne e Koulibaly, presto arriverà quella di Mertens), ingegnere meccanico e master in business administration alla Bocconi, Antonio Cammisecra diventerà da ottobre il nuovo responsabile delle reti e infrastrutture dell’Enel. Ma fino ad allora continuerà ad essere l’uomo delle energie rinnovabili e della generazione elettrica del gruppo guidato da Francesco Starace. Ovvero il responsabile di strategie messe a dura prova prima dalla pandemia e poi dai piani di sviluppo «green» da cui ci si attende un recupero accelerato delle economie europee e mondiali.
Al di là della narrazione corrente sulla green economy resta che le fonti fossili coprono ancora l’80% della domanda mondiale. Lei crede veramente in un mondo di energie rinnovabili al 100%?
«Certo, come asintoto tecnologico a cui tendere. Non un’utopia, ma il prodotto di una visione realizzabile nel corso dei prossimi venti o trent’anni. E poi non si tratta di una questione di percentuali, a cui il pianeta Terra non si interessa, ma della quantità assoluta di emissioni climalteranti introdotte in atmosfera. Da questo punto di vista sono ottimista: credo che si sia arrivati a una svolta, perché l’ipercompetitività delle energie rinnovabili le rende ormai una scelta inevitabile. E credo che lavorando duramente nei prossimi dieci anni sia anche possibile rientrare nella traiettoria degli accordi sul clima di Parigi 2015».
I pacchetti di ripresa post pandemia confidano moltissimo sul potenziale di sviluppo che sarebbe insito nella «green economy». Ma è veramente così, in termini di crescita e di lavoro? E come?
«L’ambiente era il nostro grande problema anche prima dell’emergenza Covid. E ora che soffriamo una recessione economica devastante a livello planetario resta un terreno che non solo deve attirare capitali ma che ha la capacità di scaricarli velocemente in progetti concreti. E non parliamo solo di grandi imprese e progetti infrastrutturali, che pure ci sono, ma di una miriade di investimenti di piccole e medie dimensioni, che permetterebbero di dare ossigeno a soggetti distribuiti lungo tutta la catena del valore».
Da questo punto di vista il passato non gioca a favore dell’Italia, che non ha creato particolari filiere nazionali e ha visto i suoi incentivi finire all’estero. Non è così?
«Non sono d’accordo su questa ricostruzione. Diciamo però che nel mondo dell’energia stanno avvenendo trasformazioni molto profonde che nascono dall’uso di tecnologie evolute nelle quali l’Italia manifatturiera deve tornare a dire la sua».
E come in concreto?
«Oggi in Italia potremmo essere in grado di produrre moduli fotovoltaici ad alta tecnologia, magari utilizzando la plastica riciclata, o di costruire elettrolizzatori (le celle elettriche per produrre idrogeno, ndr) oppure di ritornare a realizzare componenti importanti della filiera eolica. Ma soprattutto dovremmo occuparci di progetti di economia circolare che rendano ancora più virtuose le energie rinnovabili. La nostra industria potrebbe porsi al centro delle filiere di smaltimento e di riciclo della vetroresina delle pale eoliche. Lo sa che una moderna pala eolica è più grande di un Airbus A380 , e che con quella vetroresina si possono fare tante cose, dai mattoni antisismici leggeri ad asfalti drenanti e riflettenti che rendono le strade più sicure?»
Sono attività che producono anche occupazione?
«Ad esempio abbiamo stimato che il rilancio della fabbrica di pannelli solari di Catania può creare fino a 3.500 occupati, tutti tecnici di medioalto livello. Non è poco».
Che cosa manca per andare in questa direzione?
«Non basta il Piano nazionale energia e clima, servirebbe una strategia più ampia, che si allarghi alle tecnologie. L’Italia che ruolo vuole avere? C’è un vuoto che va colmato velocemente, e abbiamo solo uno o due anni per farlo prima che altri Paesi più avanti di noi o più ambiziosi di noi si posizionino e ci tolgano un’opportunità di rilancio occupazionale, economico e tecnologico importante».
L’Ue si è impegnata sul Recovery Fund, ma poi saranno le imprese a implementare i progetti. L’Enel a che punto è?
«Nei quattro Paesi Ue dove siamo presenti, Italia, Spagna, Romania e Grecia abbiamo già sostanzialmente identificato i progetti specifici in cui ci vorremmo impegnare, laddove potessimo accedere ai fondi».
Per voi l’ingresso nelle tecnologie dell’idrogeno è una novità?
«Pensiamo a sinergie industriali tra impianti solari ed eolici, batterie ed elettrolizzatori per produrre idrogeno. È un business model che stiamo sperimentando in Texas e in Cile mentre presto partiremo anche in Spagna».
Voi pensate a idrogeno «verde» cioè prodotto con rinnovabili, ma non è ancora troppo costoso?
«Con il livello di competitività raggiunto dalle rinnovabili in molti Paesi europei se facciamo proprio bene i conti non è vero che costi il doppio, potremmo scoprire che in alcune situazioni costa addirittura di meno».
Vi rimproverano di non uscire più velocemente dal carbone. Siete lenti?
«Il carbone è una tecnologia non più compatibile con gli obiettivi di sostenibilità generali. Ma chiudere una centrale a carbone non è una cosa banale, perché bisogna tenere accesa la luce nel Paese dove si opera. In Spagna è sostanzialmente finito, in Cile abbiamo accelerato, e fermeremo entro la fine dell’anno un gruppo a Brindisi, la prima chiusura in Italia. Per le altre centrali italiane abbiamo quattro progetti di conversione a gas. Ci chiedono perché passiamo per il gas in Italia. Lo facciamo perché da noi la velocità di penetrazione delle rinnovabili è più bassa della Spagna. E il male minore è il gas».
La velocità minore di cui parla è qualcosa che si riferisce ai freni burocratici e amministrativi? È il solito ritornello.
«Abbiamo fatto un calcolo: alla velocità con cui l’Italia autorizza nuovi impianti rinnovabili ci vorranno 100 anni per raggiungere gli obiettivi del Piano nazionale per il solare e 26-27 anni per l’eolico. Il Pniec ha un orizzonte temporale al 2030»
Come se ne esce?
«Quando parliamo di sburocratizzare non parliamo mai di ridurre le prerogative decisionali delle amministrazioni a qualsiasi livello, ma solo di monitorare dei parametri di efficienza, di creare dei percorsi decisionali più logici. Le amministrazioni devono poter dire sì o no, ma in tempi certi e senza ripensamenti. Sarebbe anche il presupposto per attirare capitali internazionali».
Il lavoro Solo con il rilancio del polo di Catania 3.500 posti