«Trasgressioni a Salisburgo Una rivoluzione per l’opera»
Il direttore Hinterhäuser e i 100 anni del Festival: rinnovate le regìe
Doveva essere un’edizione irripetibile: lo è. Ma per una ragione diversa, inimmaginabile. I 100 anni del Festival di Salisburgo, la più prestigiosa vetrina musicale, cominciata ieri con Elektra di Strauss diretta da Franz Welser-Möst, coincidono con il Covid-19. Ne parliamo con il direttore artistico Markus Hinterhäuser. «Nei giorni più duri del Coronavirus abbiamo pensato agli scenari più diversi: non fare il Festival, oppure fare un solo evento il 20 agosto, il giorno del centenario. Poi la situazione sanitaria in Austria è cambiata, anche se negli ultimi tempi non è tanto stabile. Dovevamo dare un segnale, con i nostri Wiener come DNA, anche per dare coraggio alle altre istituzioni culturali. E avremo un pubblico da 80 paesi».
Il coraggio e la determinazione in un programma inevitabilmente ridimensionato, da 8 a 2 opere; i biglietti venduti previsti erano 240 mila: saranno 80 mila. La sala capienza della sala grande, a causa dei vincoli, da 2200 a 1000 posti. «Non ci vuole Einstein
per capire che sarà in perdita, un altro anno così non lo reggeremmo». Le due opere, senza intervallo causa distanziamento: Elektra che è in un atto e ha poco coro, e Così fan tutte («Salisburgo senza Mozart è impensabile»), sforbiciata a 2 ore e 15, via i recitativi e alcuni ensemble, un’edizione «minimalista dove i cantanti, tutti giovani, sono vicini senza vincoli, i test da noi sono continui».
Hinterhäuser, l’età dell’oro del Festival è legata a Karajan.
Con i successori, Mortier, Ruzicka, Flimm, Pereira, Hinterhäuser, c’è stato il cambio radicale, verso regie innovative, trasgressive, provocatorie, che hanno fatto da apripista in Nordeuropa e parzialmente in Italia. I nudi (ma oggi non fanno scandalo), le attualizzazioni, le aggiunte ai libretti…E poi la bellezza dei cantanti, importante come le voci. «Prima di Karajan non esisteva al Festival l’Intendant. Dopo la sua morte, nel 1989, i registi hanno preso piede. Le opere non sono scritte nella pietra, come qualcuno pensa, noi abbiamo un’unica vita e c’è bisogno di metterle nel microscopio, per vedere la condizione umana. Si doveva creare una prospettiva del futuro, ridefinire cos’è il teatro musicale, tema semplice e complicato. A volte si esagera, la provocazione come strategia è noiosa».
Negli Anni 90 era un Festival mitteleuropeo e l’Italia, come gusto e interpreti, a parte poche eccezioni come Riccar
Scandalo Cantanti in slip e reggiseno in un «Don Giovanni» del 2002 che fece discutere. Dai primi anni 90 c’è stato un cambio radicale delle regìe liriche do Muti che dirige al Festival da 50 anni consecutivi e il 14 agosto dirigerà la Nona di Beethoven), era il vicino di casa estraneo, Puccini ignorato e così i registi. «Poi sono arrivati Michieletto e Romeo Castellucci, che nel ’21, quando prolungheremo il centenario, farà Don Giovanni. E non dimentichiamo Cecilia Bartoli».
Il Festival fu fondato da Hugo von Hofmannsthal, Richard Strauss e Max Reinhardt nel 1920, «due anni dopo la prima guerra mondiale, in una situazione economica, politica e sociale di estrema povertà, sull’idea utopica che un mondo migliore era possibile, riallacciandosi al mito greco». Tutto avvenne in una cittadina cattolicissima, conformista ma allo stesso tempo cosmopolita. «Quello che lo storico Georg Kreis chiamava l’ambivalenza dell’antimodernità nella modernità». I fondatori coltivavano anche l’idea del rifugio della cultura per i pellegrini, oggi è il festival della ricca opulenza borghese. «Con 240 mila biglietti come si può parlare di soli ricchi? E’ un cliché di cui sono stanco, abbiamo il 50 percento dei biglietti sotto i 100 euro. E tutti i nostri sponsor sono saliti a bordo. Dobbiamo convivere col virus. Noi ci siamo».
Strategia
«I capolavori non sono scritti sulla pietra ma la provocazione come strategia è noiosa»