Avati e il processo ai Vitelloni «Io li assolvo, ne ho nostalgia»
Succede dal 2001. Ogni 10 di agosto a San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena) va in scena il processo. Alla Rivoluzione Russa o a Mazzini, a Garibaldi oppure (l’anno scorso) a Machiavelli. Quest’anno l’accusa e la difesa processeranno i vitelloni di Fellini, in omaggio ai suoi 100 anni dalla nascita. I vitelloni del suo film sono insolenti donnaioli e inconcludenti maschi fannulloni o sono espressione del loro tempo e parte di loro appartiene in fondo a ciascuno di noi? La loro sorte si deciderà a Villa Torlonia, davanti a un pubblico di 400 persone che emetterà il verdetto alzando le palette. Alla «corte» la sentenza: condannati o assolti
Pupi Avati dice che «se partecipassi al processo dovrei assolverli per forza ‘sti ragazzi...» E perché?
«Perché quell’Emilia lì dei vitelloni era l’Emilia dei bar. Contiene una forma di leggerezza assoluta di cui ho una grandissima nostalgia».
Regista, sceneggiatore, scrittore, bolognese. Nei suoi ricordi c’è un giovane Pupi durante le «estati più belle della mia vita sulle spiagge romagnole». Terra di vitelloni, appunto.
dTrattasi di maschi, fannulloni, donnaioli, irresponsabili...
«I vitelloni che racconta Fellini sono cresciuti così, in una società coniugata al maschile, dove l’amicizia maschile era al massimo delle sue potenzialità, la complicità era totale e l’inconcludenza era vissuta impunemente. Sono figli della cultura di quel tempo lì, non possiamo accusarli adesso di essere sbagliati. Però se parliamo di Fellini e di vitelloni devo fare per forza una premessa».
Prego.
«Negli ultimi tempi ho la sensazione di aver ecceduto nel parlare di Fellini, e questo mi imbarazza. Non voglio vantare o millantare una grande amicizia o collaborazione con lui che ho conosciuto bene soltanto nel finale della sua vita. Mi sembra corretto dirlo».
Torniamo ai vitelloni. Anche lei ha fatto parte della categoria?
«La narrazione di quell’Emilia mi precede, ma diciamo che per un certo periodo ci ho provato, sì. Andavo al bar Margherita, di fronte a casa mia a Bologna e lì le regole erano da maschio vitellone. Però quel vivere non era nella mia natura, io ero diverso, e non dico meglio o peggio. Dico che alla fine ho preferito raccontare quella Bologna piuttosto che viverla».
Raccontarla con il film “Gli amici del bar Margherita?”
«Esatto. Era un film molto affettuoso nei loro riguardi. Racconto un tasso di ingenuità elevato. I miei ragazzi, come i vitelloni, sono sganciati da ogni collegamento sociopolitico della stagione che stanno vivendo. Nel bar del mio film ci sono regole per diventare clienti. La prima: al bar non si portano mogli, fidanzate, sorelle figlie... valevano anche per la realtà, ovviamente».
Quindi lei non ci è mai entrato con una ragazza?
«Ma scherza? Se uno di noi si fidanzava la regola era che gli altri avrebbero fatto di tutto per farti mollare la sventurata. Ricordo che una volta una fidanzata, esasperata dal mio comportamento, telefonò per dirmi che si sarebbe uccisa se non fossi andato da lei. E allora noi del bar — per farle capire la qualità scadente dell’essere umano — andammo tutti sotto il suo terrazzo a urlare: buttati, buttati. Avevamo un’obbedienza cieca e assoluta a queste regole».
Se lei dovesse dire a chi dei vitelloni di Fellini è assomigliato di più negli anni del suo bar Margherita?
«Sicuramente a Moraldo che alla fine del film si decide a prendere il treno e andarsene dalla realtà di provincia. Nel mio film c’è un ragazzino che si sottrae alla foto di gruppo per celebrare l’anno vissuto da cliente del bar: quel ragazzino sono io. Il senso è che quella fotografia è più bello raccontarla da fuori. Io sono quello che ha guardato gli altri in posa».
Il primo ricordo felice che le viene in mente dell’era dei vitelloni.
«Io che suono il clarinetto. Facevo il musicista da ballo e non può capire i vantaggi che dava quel lavoro. Ricordo con nostalgia scambi di sguardi .... Succedevano cose miracolose. E poi c’era l’idea di fondo che il maschio dovesse per forza fare il donnaiolo, anche se non gli andava di farlo».
In che senso?
«La cultura del tempo imponeva che si dimostrasse di essere maschio. Ricordo che accompagnavo a casa le amiche di mia madre che trovavo tutt’altro che attraenti. Beh... mi sono detto più volte: forse dovrei saltarle addosso sennò penseranno che sono gay».
Facevo il musicista da ballo e quel lavoro dava parecchi vantaggi... E poi c’era l’idea di fondo che il maschio dovesse per forza fare il donnaiolo, anche se non gli andava di farlo