Corriere della Sera

IL DOLORE, L’ORGOGLIO STORIA DI UN’OPERA IN 10 ATTI

La detonazion­e delle macerie in 6 secondi Gli sfollati nelle loro case per l’ultima volta Il momento più difficile con la terza campata issata durante il picco di Covid

- SEGUE DA PAGINA 29 di Marco Imarisio

IL CROLLO DEL GRANDE MALATO

Le macerie come piramidi. La prima telefonata al 112 fu di Andrea, un abitante della Valpolceve­ra. «È crollato il ponte Morandi» disse. Non venne creduto. Così come all’inizio faticò a crederci anche il sindaco Marco Bucci. I genovesi erano orgogliosi di quella striscia d’asfalto che da cinquant’anni scorreva sopra le loro teste. Sapevano che era malato da ormai molti anni. Molti abitanti del quartiere sottostant­e avevano più volte lanciato l’allarme sul degrado della struttura. Ma gli volevano bene, al loro ponte di Brooklyn, che aveva stralli alti novanta metri, e ci passava sopra mezza Italia per andare in vacanza. Finisce tutto alle 11.41 di quel giorno. Da appena dieci minuti era passato un pullman carico di quaranta bimbi diretti a una colonia estiva vicino a Savona. Quando alle 18 viene autorizzat­o l’ingresso nel letto del torrente Polcevera, la scena del disastro risulta surreale e terribile al tempo stesso. Le macerie sono alte come piramidi, monoliti caduti dal cielo da cinque metri di spessore e almeno trenta di altezza. I poveri resti delle vittime vengono fissati alle estremità delle gru e portati sul ciglio della strada, occupata da una lunga fila di furgoni mortuari. Ogni volta che viene trovato e recuperato un cadavere, i soccorrito­ri spengono le macchine, ordinano il silenzio a tutti. Lo faranno per ben 43 volte. E non smetterann­o di ringraziar­e la pioggia battente che flagellava il nord Italia. Perché se fosse stata una giornata di sole, le vittime si sarebbero contate a centinaia.

14 settembre 2018

UN LUTTO INFINITO E LE PROMESSE

Nella piazza De Ferrari, che ha sempre accompagna­to gli svincoli della sua storia, Genova conferma la sua natura sobria. Piangono tutti, ma cercando di non farsi vedere, mentre Tullio Solenghi elenca con la voce spezzata i nomi delle vittime, accompagna­ndoli con piccoli ricordi, dettagli di vita riferiti dalle famiglie. Il 18 agosto c’erano stati i funerali di Stato nel padiglione Jean Nouvel della Fiera. Quel giorno, alcuni esponenti dell’allora governo, Luigi Di Maio su tutti, avevano sussurrato ai parenti, davanti alle bare dei loro cari, la loro intenzione di «farla pagare cara» ad Autostrade per l’Italia, l’azienda che avrebbe dovuto prendersi cura del ponte. Adesso, a un mese dalla tragedia, in una piazza gremita di quasi

ventimila persone, l’ultimo a parlare dal palco è Giuseppe Conte, reduce da un Consiglio dei ministri notturno interament­e dedicato a Genova, «che attende concretezz­a nelle scelte», come ha scritto il capo dello Stato Sergio Mattarella in una lettera aperta alla città. Durante il suo intervento, il premier agita un brogliacci­o di fogli dicendo che è «pieno di misure concrete». In realtà è stato deciso di fare un decreto ad hoc per Genova. Manca ancora tutto il resto. 18 dicembre 2018

LA SQUADRA È FATTA

La firma sul progetto è quella di Renzo Piano. Era il 7 settembre, quando il grande architetto genovese aveva esposto nell’Auditorium della Regione Liguria la sua idea di un ponte d’acciaio, dal «piccolo passo», bello come una nave e sobrio come la sua città. Ma insieme a lui, al tavolo dei relatori, c’era anche l’allora amministra­tore delegato di Autostrade per l’Italia, un ospite ingombrant­e. Due mesi dopo, il committent­e è diverso, il contesto pure. Solo Piano e la sua visione restano uguali. Dopo qualcosa come 79 modifiche, e infinite polemiche, a metà novembre il Decreto per Genova è stato finalmente convertito in legge dello Stato. Marco Bucci, nominato commissari­o per la ricostruzi­one, deve scegliere tra i progetti che gli sono stati presentati. Decide per la cordata composta da Salini Impregilo e Fincantier­i, che porta avanti e sviluppa il progetto originario di Piano. Non c’è molto tempo da perdere. I quartieri di ponente sono sempre

più isolati dal resto della città. Il traffico è impazzito, privo com’è del ponte che era anche una specie di circonvall­azione interna. Dopo aver mostrato una pazienza infinita, i genovesi mostrano segni di insofferen­za. E hanno ragione. 7 maggio 2019

IL DOLORE DEGLI SFOLLATI

A ognuno dei 566 sfollati del ponte Morandi, che abitava nelle case sottostant­i, è stato concesso due ore di tempo per entrare nella sua abitazione, prendere il più possibile di quello che resta, e non tornare mai più. Li hanno divisi in due gruppi, venticinqu­e famiglie al mattino, 25 al pomeriggio, fino ad esauriment­o, con precedenza alla «zona nera», ai palazzi sotto il ponte. Quelle case sono state rese instabili, spesso pericolose, dal crollo del 14 agosto. Le strade più vicine, come via Fillak e via Porro, sono state appena riaperte in pompa magna. Adesso invece non c’è nessuno, perché è un congedo definitivo, un addio a un quartiere, una cosa triste. L’emotività dei primi mesi è svanita. Genova guarda alla ricostruzi­one del ponte.

28 giugno 2019

ADDIO AL VECCHIO PONTE

Della grande detonazion­e si sapeva tutto. Sarebbe durata sei secondi, il rischio dell’amianto presente nelle pile 10 e 11, nei monconi e nelle vette del Morandi alte 92 metri, sarebbe stato contenuto dalla contempora­nea esplosione delle trincee d’acqua poste sull’interrato e ai piedi della struttura, per assorbire il pulviscolo. Un tratto dell’autostrada era stato chiuso, così come tutte le strade intorno nel raggio di trecento metri, e le 3.400 persone che ci vivono erano state evacuate. Eppure, accade all’improvviso. Ministri e sottosegre­tari sono in attesa dello spettacolo, trasmesso in diretta televisiva. Ma alle 9.37 nessuno sente il suono delle tre sirene che annunciava­no l’evento. Il boato arriva inaspettat­o, quasi di sorpresa. Per i genovesi è stato un addio vero, più lacrime che applausi. «Non è stata colpa sua se l’hanno ridotto così» dicono. La storia del ponte Morandi non doveva finire così. E una fine del genere può essere dimenticat­a solo con un nuovo inizio.

1° luglio 2019

NASCITA DI UN CANTIERE

Il 15 aprile 2019 ha aperto quello che sui documenti ufficiali si chiama Cantiere di ricostruzi­one del Viadotto Polcevera, che per quasi tre mesi agisce in simultanea con quello della demolizion­e. Dal primo all’ultimo giorno, ci lavorerann­o circa 1.200 persone, per costruire un ponte lungo 1067 metri, con 18 pile di cemento armato di sezione ellittica, posizionat­e con un passo costante di cinquanta metri, con un impalcato in struttura mista cemento-acciaio. L’avvio però non sarà semplice. L’obiettivo di costruire una pila al mese sembra irrealizza­bile. Solo a settembre, quando entreranno in funzione in simultanea quattro casseri, le armature che contengono il getto di calcestruz­zo per dare forma a una pila, si comincia a

delineare quel metodo di lavoro in simultanea che caratteriz­zerà l’esistenza del cantiere. Le squadre di scavo fanno andare le trivelle, mentre intanto si preparano i pezzi e li si posano. Il sollevamen­to della prima campata metallica per l’inizio di ottobre comincia a non sembrare più un’utopia irrealizza­bile.

IL DEBUTTO UFFICIALE

E infatti. Alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e della neoministr­a alle Infrastrut­ture Paola De Michelis, viene alzata l’enorme trave lunga cinquanta metri e pesante sei tonnellate. A tenere banco è soprattutt­o la polemica sulla revoca della concession­e ad Autostrade per l’Italia, un tormentone che dura fin dal primo momento. Il presidente del Consiglio esprime una opinione netta, che verrà poi confermata dai fatti, quasi un anno dopo. «Il procedimen­to in corso è per la caducazion­e» dice. Il titolo di giornata è quello. Ma per gli operai, per chi vive la vita del cantiere, le parole più belle e importanti sono quelle pronunciat­e da Renzo Piano in un discorso davvero ispirato. «Costruire è un gesto di pace e di speranza, un gesto collettivo: costruendo nasce una cosa bellissima che si chiama solidariet­à. Noi progettist­i abbiamo fatto il nostro lavoro seduti comodament­e in studio, in sicurezza, voi operai invece lavorate in cantiere e siete come degli acrobati. Per questo vi raccomando di lavorare in sicurezza: state attenti a non farvi male».

IL NUOVO ORIZZONTE

Alle 14 in punto viene issata a quaranta metri d’altezza una trave d’acciaio lunga cento metri. Sopra il pilone numero 9, quello che il 14 agosto di due anni fa si sbriciolò facendo crollare il ponte Morandi. È un momento importante. Il nuovo ponte comincia a vedersi. Esiste, non è più un progetto. Arrivare fin qui non è stata una passeggiat­a. Una volta stabilito che questo cantiere era una cosa a sé stante, dove tutto funzionava, sembrava tutto scontato. Invece, l’autunno e l’inverno sono stati duri. A novembre un cantiere è stato allagato a causa delle forti piogge, ma non ne ha parlato nessuno. L’attenzione mediatica ritorna quando appare chiaro che il ponte si farà davvero, nei tempi previsti. Ma molte cose passano ancora inosservat­e. Come il lavoro della Struttura commissari­ale, che deve assistere le famiglie residenti nelle zone rosse, deve raccordare enti e aziende coinvolti, gestire i rimborsi alle 900 famiglie che subiscono disagi dal cantiere, la cosiddetta zona arancione. C’è tutto un mondo, dietro quel nuovo pont e.

LA VITTORIA E IL NEMICO INVISIBILE

Ogni volta che c’è un momento critico, un passaggio delicato, gli operai e gli ingegneri coinvolti si mettono in cerchio. È la tradizione della cosiddetta tool box, quando il capocantie­re affidava a ognuno mansioni e strumenti. Qui invece serve a ripassare prima di salire in quota, a sincronizz­are ogni movimento di una operazione molto complessa. Nel cantiere del nuovo ponte di Genova viene fatta per l’ultima volta la mattina del 21 marzo. C’è da posare in alto la terza e ultima campata centrale da cento metri, facendola passare sulla ferrovia. L’impalcato deve essere trasportat­o sopra i binari. A un certo punto il carrello con ruote che lo trasporta si blocca per una perdita d’olio. Quando viene imbragato, si alza il vento all’improvviso, 1.800 tonnellate sospese per aria. È il giorno più difficile. Poche persone a disposizio­ne. L’epidemia fa paura. Ma l’interruzio­ne della linea ferroviari­a era stata programmat­a sei mesi prima. Non è possibile andare indietro. Si decide di rischiare, proseguend­o l’operazione. A sera, dopo meno di due anni, l’orizzonte di Genova torna ad avere un filo. Il nuovo ponte ormai si vede. Esiste, c’è. Pochi giorni dopo, un lavoratore risulta positivo al Coronaviru­s. Altri quaranta operai vengono messi in isolamento. L’attività rallenta. Ma ormai manca poco.

Il mio lavoro doveva essere soprattutt­o quello di proteggere il cantiere del ponte dal sistema burocratic­o, di pungolare per dare una spinta dall’interno Insomma, ho martellato

Ho imposto un metodo di lavoro americano, procedere in parallelo e in modo sequenzial­e Avevamo gli occhi di tutto il Paese su di noi, ma a me non pesava Mi sono concentrat­o solo su quello

LA VITA NUOVA

Dopo 620 giorni da quel 14 agosto 2018, il 28 aprile viene fissata l’ultima delle 19 campate poste a quaranta metri di altezza. I 1.067 metri di acciaio e cemento del nuovo ponte sono completi. Il ponente e il levante di Genova hanno nuovamente una spina dorsale che li tiene insieme. La cerimonia avviene in tono minore, e non può essere altrimenti. L’Italia è ancora in lockdown. Da quel giorno comincia il conto alla rovescia. Per paradosso, è proprio il completame­nto del nuovo viadotto ad accelerare la risoluzion­e della diatriba con Aspi. Bisogna consegnarl­o a qualcuno, ma ancora non si capisce chi sarà il gestore. La fine è nota, con la parte prevalente della rete autostrada­le che torna in mani pubbliche. Intanto, il grande cantiere che era nato ai piedi delle prime pile sta per essere smantellat­o. Le casette che ospitavano gli operai sono già state smontate. Ormai si lavora solo in quota. L’8 luglio viene posato il primo strato d’asfalto, dieci giorni dopo iniziano le prove di collaudo. Oggi l’inaugurazi­one, alla presenza del presidente della Repubblica. Avvenne lo stesso con un altro ponte, 53 anni fa. Poi venne lasciato al suo destino. All’incuria, alla mancata manutenzio­ne, come se fosse scontato che potesse durare per sempre. Non fu così. Cerchiamo di imparare dalle tragiche lezioni del passato.

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