Artusi, l’Italia unita a tavola
Il 4 agosto 1820 nasceva l’autore che inventò (e raccontò) la nuova cucina nazionale
Nella sua edizione pomeridiana del 9 novembre 1956, «Stampa Sera» riportava il frammento di un dialogo tratto da una puntata di Lascia o raddoppia, il celebre quiz condotto da Mike Bongiorno. È il momento della quarta domanda al concorrente — il signor Menconi —, che si era presentato come esperto di gastronomia. «Vi è un uccello acquatico che secondo Artusi si potrebbe chiamare uccello-pesce…». Menconi, a quanto pare preparatissimo, non dà al conduttore nemmeno il tempo di finire e risponde (correttamente): «La folaga». Poi arriva la quinta domanda per il gettone d’oro. «Sa dirci per quale ragione, secondo Artusi, la schiena di maiale cotta arrosto o in forno in Toscana si chiama arista?». Sono curiose — e perché no — anche divertenti annotazioni che fa Cecilia Robustelli in un breve saggio dal titolo La costruzione della lingua unitaria, contenuto negli atti di un convegno del 2011 dal titolo Il secolo artusiano, pubblicato dall’Accademia della Crusca insieme a Casa Artusi.
Abbiamo citato questo passaggio d’altri tempi per dimostrare come Pellegrino Artusi — del quale domani ricorrono i duecento anni della nascita — e il suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene
— pubblicato per la prima volta nel 1891 —, fossero da anni già talmente popolari in Italia (agli inizi del Novecento, prima della traduzione e del successo oltreoceano, era già conosciuto in America), che inserire delle domande su di essi all’interno del quiz più seguito della televisione italiana non stupiva nessuno, anzi.
Quattordici anni dopo, nel 1970, quello stesso testo fu consacrato dall’editore Einaudi che lo pubblicò all’interno della collana dei Classici, con un’introduzione, appassionata e austera al contempo, firmata da Piero Camporesi — illustre e indefesso studioso di filologia, letteratura, cultura popolare e molto altro ancora — che poneva il libro dell’Artusi insieme a Pinocchio di Carlo Collodi e Cuore di Edmondo De Amicis fra i capisaldi della cultura italiana ottocentesca. Cultura e cucina che si tendono la mano e che già allora, o forse più in passato che non ai giorni nostri — dato che la cucina negli ultimi trent’anni ha imboccato derive da star system — condividevano molte cose.
Domani cade dunque il bicentenario della nascita di Artusi, che viene celebrato anche — e non solo — a Forlimpopoli (Forlì-Cesena), sua città natale, con una serie di feste, incontri, cene a Casa Artusi e in paese (fino al 9 agosto, info: festartusiana.it). Per l’occasione dell’anniversario — e nel frattempo questo testo ha continuato comunque a rimanere sul podio dei libri (intelligenti) di gastronomia (sono pagine non solo fondamentali per la cucina, come vedremo) — sono usciti diversi libri omaggio. Abbiamo scelto Pellegrino Artusi. Il fantasma della cucina italiana (Mondadori) di Alberto Capatti (1944), uno dei più importanti storici della gastronomia.
Pellegrino Artusi trascorse l’infanzia in Romagna in una famiglia patriarcale, che aveva messo al mondo tredici figli (quattro maschi e nove femmine), frequentò successivamente l’università a Bologna, senza mai laurearsi, visse per trent’anni a Forlimpopoli e sessantuno a Firenze dove, in un villino in piazza Massimo d’Azeglio, scrisse il famoso trattato di gastronomia, coadiuvato dalla sua fedele domestica Maria Assunta Sabatini, detta Marietta, e dal suo cuoco Francesco Ruffilli. Tutti i piatti venivano provati e riprovati e poi messi a punto. C’era un lunghissimo lavoro di revisione e di continuo arricchimento, con aggiunta di ricette, che hanno occupato lo spazio di due decenni, dal 1891 (data della prima pubblicazione) fino al 1911 (Capatti lo definisce il «ventennio artusiano»), quando il 30 di marzo Pellegrino Artusi morì a Firenze, dove si era trasferito nel 1851. Maria Assunta Sabatini avrebbe ricordato: «Il libro lo cominciò quasi per ischerzo. Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. Scriveva sempre. Si alzava la mattina alle otto e si metteva a tavolino fino all’ora del pranzo. Poi riprendeva a scrivere per qualche ora. Era un continuo alternarsi fra studio e cucina, penna e pentole».
L’Artusi, con le chiuse di certe sue ricette in versi a rima baciata, non è solo un elenco ragionato (e difficilmente attaccabile) di pietanze commentate con penna letteraria, ma anche un testo che racchiude in sé elementi storici, sociologici e antropologici e al quale va il merito di aver provato a unificare la cucina italiana, in un Paese che stava provando a unificare sé stesso.
Artusi era un signore agiato, schivo e riservato che respirava gli ideali risorgimentali. Di lui, avverte Capatti, possediamo un solo ritratto fotografico, «ma più di 1.800 lettere a lui indirizzate negli anni del nuovo secolo, a riprova del suo successo». Prima della Scienza aveva già pubblicato Vita di Ugo Foscolo e le Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti.
L’insuccesso di queste prime operazioni editoriali lo portò, per il progetto successivo, a cambiare totalmente argomento. Nel giro di pochi mesi si presentò presso la tipografia Landi di Forlimpopoli con 475 ricette da far pubblicare a spese proprie. Ne ordinò mille copie (l’ultima edizione del 1911, con una tiratura da 58 mila, conteneva 790 ricette). Il successo arrivò già con la primissima edizione del 1891, inaspettato come un fulmine a ciel sereno.
Quella di Capatti — il più profondo conoscitore dell’Artusi insieme a Massimo Montanari — è con ogni probabilità la monografia definitiva sul gastronomo. Monografia che è biografia vera, «di vita vissuta» e (anche) «quella da noi immaginata, cuocendo aneddoti, documenti e lettere». Lo studioso ci restituisce un Artusi nella sua complessità e innegabile contemporaneità. Ci guida alla scoperta di un uomo che potrebbe vivere nel nostro tempo e trovarsi perfettamente a proprio agio. Un fantasma che ci affida «la storia di un libro che rassomiglia alla storia di Cenerentola», come scrisse Artusi stesso nella sesta edizione del 1902.
P.S. Per i cultori della materia: la folaga (Fulica Atra) citata nella domanda di Lascia o raddoppia è nella ricetta numero 275, inserita nella seconda edizione del 1895.
Nel 1891 l’autore chiese alla tipografia Landi di Forlimpopoli la stampa di mille copie