Il paradiso via aliscafo Capri ha un «difetto»: è una meta troppo vicina
Se fosse alle Antille, sarebbe il viaggio della vita Ma questa bellezza esagerata è a un’ora scarsa di nave
Il problema è avercela così vicina. Perché si sa, le cose a portata di mano hanno la caratteristica di perdere valore. Se fosse alle Antille, o al largo del Golfo del Messico staremmo tutti a mettere da parte i soldi per poterci andare, almeno una volta nella vita; magari a festeggiare le nozze d’argento, camminando a bocca spalancata e naso all’insù alla ricerca di emozioni da riferire al ritorno, cellulare in pugno e dito pronto a schiacciare il tasto per fissare immagini indimenticabili.
E invece ce l’abbiamo qui, che se ti gira in una mattinata storta dici ciao a tutti, ti alzi e ci vai, un’ora scarsa di aliscafo per affacciarsi su un panorama che sembra immaginato da uno scenografo esperto di effetti speciali, ci mancano solo un paio di lune e un pianeta ad anelli e siamo in pieno iperspazio, ponte a capitano, siamo arrivati in paradiso. E sei a casa per cena, se non fosse per il sorriso estatico che ti lascia in faccia nessuno si accorgerebbe della fuga.
Capri, sapete, non ha senso. È un’assurda ostentazione, un’esagerata manifestazione di bellezza. Ha dentro una specie di viaggio nel viaggio, è un’esperienza sensoriale, è inutilmente regale. È un’isola, ha un clima incredibile e ci si può fare il bagno, certo: ma sarebbe una perdita di tempo. Perché la caratteristica specifica è che di ora in ora cambia, e ti fa cambiare con lei. Capri è femmina, soprattutto. Sa farsi trovare svestita, come per caso, sorridendoti in un raggio di luce, e sa perderti in una nuvola lisergica di profumo che non ti lascerà nulla di intatto nell’anima.
Non ci sentiremmo di indicare un luogo piuttosto che un altro. Abbiamo molta fiducia nei piedi, che seguendo naso e occhi sapranno trovare da soli la strada. Se potessimo dare un consiglio, diremmo di andare a braccio: come quando ci si abbandona a una sinfonia, come quando si chiudono gli occhi assaporando un piatto stellato di cui nemmeno ha senso chiedere gli ingredienti, come si resta a bocca spalancata in una sala del Louvre.
Fatevi piuttosto portare dal vento, e scegliete una barca per entrare dal mare in una grotta che sembra in tutto uguale alle altre e che invece vi schiaffeggerà il cuore, e sporgetevi dal fianco della stessa barca e immergete la mano nell’acqua, concedendovi lo stupore di vederla diventare blu: fatelo concentrandovi, e vi assicuriamo che quella mano, che pure conoscete così bene, avrà memoria di quel blu e ve lo ricorderà per sempre, ogni volta che la userete per la vita vile di ogni giorno.
E poi salite con la funicolare, in mezzo ai fiori e col mare alle spalle che vi consente il momentaneo allontanamento. Fatevi largo tra le vetrine che fanno come Circe, e fra i gelati di tutto lo spettro dei colori ma non vi lasciate tentare: avete una meta. Dovete arrivare ai giardini sospesi tra cielo e acqua, intitolati a un imperatore che decise che Roma era troppo poco per lui e trasferì la sede dell’impero sull’isola magica. In quei giardini troverete dei gelsomini, e sembra niente: e invece è tutto, perché c’è una fabbrica all’interno di quei vialetti che produce e vende le essenze dei fiori. Se non volete non comprate: ma provate ad annusare. Una volta sola, ma profondamente. A occhi chiusi, dopo molti anni e nel vostro letto, quell’odore tornerà nelle narici senza preavviso, come un tradimento; e guarderete la vostra mano blu nella notte, riconoscendo il messaggio dei sensi.
Da lì incamminatevi verso Tragara. Per favore, a passo lento: siate quasi fermi, un centimetro alla volta. Stupitevi per le ville che scendono scoscese alla vostra destra, trovate incredibile che ci sia chi ha casa lì, riflettete sul fatto che dovrebbe essere proibito possedere un pezzo di quella terra, se esiste un’umanità intera che popola il mondo e che ha o dovrebbe avere uguale diritto alla bellezza. E ritrovatevi alla fine della strada, in uno slargo in tutto uguale agli altri slarghi del pianeta, con l’unica differenza che da lì potrete osservare un miracolo. L’unico miracolo a ripetizione continua, in servizio permanente effettivo: il luogo che costringe al silenzio e alla meraviglia, come un miracolo deve fare, e che come un miracolo mette i miscredenti di fronte al dubbio, perché se esiste qualcosa del genere, credete a noi, non può essere frutto di un caso.
I nostri piedi e il nostro naso hanno scelto così. I vostri potrebbero scegliere altri mille itinerari, pieni di identico dolore dell’incanto, perché la troppa bellezza è anche una sofferenza.
Lo capite, adesso?
Che peccato, avercela così vicina.