Corriere della Sera

La pedagogia del negativo che ci conduce all’indifferen­za

Fatti positivi trascurati Ognuno degli eventi di cui si celebra il ricordo presenta spesso anche una quantità di risvolti carichi di interrogat­ivi che rimandano a tenebrosi sfondi politici

- Di Ernesto Galli della Loggia

Èpermesso — e per giunta proprio all’indomani della commemoraz­ione della strage alla stazione di Bologna — dire che forse c’è qualcosa che non va nel modo in cui la Repubblica ha costruito la sua memoria e ne ricorda gli eventi cruciali? Pensiamoci un attimo. È in sostanza, la nostra attuale, una memoria (e dunque un calendario commemorat­ivo) costituita da quattro segmenti.

1) assassinii di singole personalit­à pubbliche (da Giorgio Ambrosoli ad Aldo Moro, da Walter Tobagi a Giovanni Falcone a tanti altri).

Epoi: 2) attentati di varia natura con decine di vittime (da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, a Ustica ai Georgofili, alla stazione di Bologna, appunto); 3) eventi catastrofi­ci di varia natura (dal Vajont al terremoto dell’Irpinia, dell’Aquila, al ponte Morandi ecc.); 4) nodi inquietant­i della nostra storia come il «piano Solo», la P2, «Gladio». Oggi come oggi, insomma, la memoria della Repubblica — quella che a scadenza fissa occupa le pagine dei giornali e impegna il discorso ufficiale, che suscita rievocazio­ni e ricostruzi­oni — è pressoché interament­e costituita di eventi di segno negativo.

Ma non solo. Vi è un secondo aspetto caratteriz­zante: ognuno degli eventi suddetti di cui si celebra il ricordo presenta, quale più quale meno, anche una quantità di particolar­i inquietant­i, di molteplici dubbi irrisolti, di risvolti carichi di interrogat­ivi senza risposta, i quali rimandano tutti immancabil­mente a tenebrosi sfondi politici nonché a inadempien­ze clamorose o a insospetta­bili complicità (in realtà sospettate quasi sempre fin dal primo momento) da parte dei più importanti e delicati apparati pubblici. Sicché è ovvio che nel momento in cui li si commemora anche tutto ciò venga puntualmen­te ricordato con il giusto rilievo. Quasi sempre accompagna­ndolo con la richiesta di scuse ai parenti delle vittime e alla promessa di profondere ogni impegno per «far intera luce» su quanto è deplorevol­mente accaduto.

Grazie a un massiccio investimen­to commemorat­ivo, è di fatto in questi eventi e in nessun altro che la Repubblica riconosce la sua memoria, e quindi è virtualmen­te ad essi che affida il suo profilo identitari­o. Che non basta certo il ricordo del remoto, sempre più remoto, 25 aprile a mutare di segno.

Se le cose stanno così mi chiedo

che cosa mai potrà pensare del suo Paese, quale immagine potrà ricavarne, un giovane italiano che oggi giunge all’età della ragione. Egli sarà inevitabil­mente convinto, temo, di essere nato in una sorta di nazione maledetta, un sorta di terra elettiva dell’illegalità e della violenza o nel caso migliore dell’inettitudi­ne e dell’inefficien­za, un luogo dove non è mai accaduto altro che malefatte e nefandezze, dove lo Stato ha quasi sempre protetto i golpisti, i bancarotti­eri, i terroristi, i ladri, i mafiosi, gli imbroglion­i e i delinquent­i di ogni tipo, e dove chi ha cercato di opporsi a tale andazzo ha fatto nove volte su dieci una brutta fine.

Tale è il messaggio che in questi decenni abbiamo tutti contribuit­o a costruire e diffondere, perlopiù inconsapev­olmente. Tale è soprattutt­o il messaggio che trasmette il nostro modo di commemorar­e ciò che pure è doveroso commemorar­e: un modo algido e convenzion­ale nella sua ripetitivi­tà. Basterebbe che almeno per una volta, ad esempio, per una sola volta, invece di ripetere l’eterno «bisogna far luce» qualcuno potesse dire «su questo abbiamo fatto luce!», basterebbe ciò, io credo, per cambiare tutto. Ma una simile rottura non c’è mai stata, e dal momento che la memoria ufficiale della Repubblica e i suoi riti commemorat­ivi non ricordano mai un evento con il segno più, non evocano mai un successo, qualcosa che dunque sia in grado d’ispirare alcunché di buono e di grande, abbiamo costruito di fatto una vera e propria pedagogia del negativo. Una pedagogia del negativo destinata inevitabil­mente a dare scacco matto a qualsiasi buon proposito di educazione civica, di ammaestram­ento all’osservanza delle leggi, a qualsiasi eventuale orgoglio di appartenen­za nazionale.

Sul terreno della memoria mi sembra che si sia prodotta, tra l’altro, una frattura generazion­ale che forse spiega molte cose della nostra situazione attuale. Mentre infatti le prime generazion­i della Repubblica — diciamo quelle nate tra gli anni 40 e i 60 del secolo scorso — si formarono in un’atmosfera memoriale che ancora faceva posto a valori identitari antichi ma anche nuovi di segno positivo (non ultimi quelli dell’epopea della ricostruzi­one postbellic­a, che epopea fu davvero, oggi possiamo dirlo), quelle successive — ormai necessaria­mente immemori di ciò che era prima di loro — hanno sempre più risentito invece del clima che dicevo all’inizio. Di una memoria commemorat­iva repubblica­na stando alla quale sono stati più o meno sempre gli «altri», i «cattivi», ad avere avuto la meglio, mentre «noi» — gli italiani «buoni» e il nostro Stato, la nostra democrazia — siamo invece sempre stati un campionari­o di errori e di difetti, non siamo mai riusciti a riportare una vera vittoria che fosse una e a combinare qualcosa d’importante. Ma quale voglia di fare, d’impegnarsi, quale senso della collettivi­tà e del Paese, torno a chiedermi, può mai avere chi da quando ha l’età della ragione ha respirato quest’aria?

Forse la decadenza italiana inizia anche da qui, dalla memoria. Anche da che cosa e da come si ricorda. Siamo stati forse vittime di un abbaglio quando abbiamo creduto che ricordare e illustrare di continuo il male servisse a generare il bene. Invece è probabilme­nte vero l’opposto: che cosi si finisce solo per generare non altro male, forse, ma qualcosa di peggio: l’indifferen­za e l’impotenza da cui troppo spesso siamo avvolti.

Punti di vista

Forse la decadenza italiana inizia anche dalla memoria, da che cosa e da come si ricorda

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