«A quell’età sintomi lievi Ma attenti ai focolai nelle scuole»
«Non è una sorpresa che l’età media dei contagiati si sia abbassata fino a 40 anni. I giovani hanno una vita sociale più attiva e quindi un maggior numero di contatti col rischio che siano meno scrupolosi nelle misure di prevenzione. Però il “ringiovanimento” dell’epidemia comporta nel breve periodo un minor rischio di sovraccarico dei servizi sanitari. I giovani possono non ammalarsi o avere sintomi lievi». Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, non demonizza la generazione degli under.
La situazione è di nuovo critica?
«Bisogna guardare oltre i numeri. Adesso in Italia sono ricoverati in terapia intensiva una quarantina di pazienti Covid-19. Tra marzo e aprile erano oltre 4 mila. Quindi non c’è criticità. Gli indicatori da tenere sotto controllo sono essenzialmente due. L’indice di trasmissione Rt che deve restare sotto il livello 1. E il numero di casi per 100 mila abitanti nelle ultime due settimane. In Italia ora siamo a 6 casi ogni 100 mila che ci pone tra le nazioni più virtuose: è la metà della Germania, un quarto della Francia, un quindicesimo della Spagna, un quarantesimo degli Usa. Non significa che possiamo dormire sonni tranquilli, però non fasciamoci la testa di paure eccessive».
Alla riapertura delle scuole è prevedibile aspettarsi qualche focolaio?
«Sì, dobbiamo aspettarcelo così come attendevamo un incremento di casi collegato alla riapertura delle frontiere interne e internazionali. Bisogna essere pronti a intervenire su focolai e catene di trasmissione come già stiamo facendo, consapevoli che permettere ai ragazzi di
tornare a scuola è un dovere civile e morale».
In quale circostanza sarebbe necessario istituire zone rosse?
«È una decisione oltre che tecnica anche politica. L’esperienza ci dice che in situazioni critiche, come un Rt attorno a 2 e un’incidenza per 14 giorni oltre 20/30 casi per 100 mila abitanti, la tempestività dell’intervento è fondamentale e può far circoscrivere le azioni di contenimento a zone specifiche, scongiurando il rischio di lockdown generalizzati».
Tanti vaccini in corsa. Quali i più vicini?
«Circa 30 vaccini nel mondo hanno iniziato la sperimentazione sull’uomo, poco meno di 200 sono in fase preclinica. I più vicini sono quelli nella cosiddetta fase 3, testati su migliaia di persone. Tra questi i candidati di Oxford/AstraZeneca, quello americano di Moderna Therapeutics, il tedesco della
Biontech/Pfizer e un paio di prodotti cinesi. Non è una gara di velocità, serve arrivare bene, non primi. Non si può correre il rischio di trascurare tutti i passaggi necessari in nome dell’emergenza».
Il vaccino Spallanzani/Reithera cos’ha di diverso rispetto a quello di Oxford/AstraZeneca?
«Il vaccino di cui il nostro istituto coordina la sperimentazione e ha partecipato allo sviluppo è stato messo a punto e brevettato da Reithera, azienda biotec del Lazio con grande esperienza nel settore. I due vaccini utilizzano lo stesso approccio tecnologico: un virus innocuo per l’uomo, reso incapace di replicarsi, sul quale viene innestata la proteina spike del coronavirus e che una volta iniettato nell’uomo provoca la reazione immunitaria. La differenza è che Reithera usa come navicella l’adenovirus del gorilla, Oxford quello dello scimpanzè, più vicino all’uomo geneticamente. È più facile che venga letto come un comune adenovirus umano provocando dunque la risposta immunitaria contro un banale raffreddore anziché contro la spike».
Ci sarà la coda per partecipare alla sperimentazione dello Spallanzani?
«Certamente sì. L’Italia è piena di gente meravigliosa e altruista. Proprio ieri ho ricevuto la lettera di una signora ligure, 94 anni, l’età di mia madre se fosse viva, che mi raccontava dei rimedi usati dalla mamma per evitare l’influenza spagnola del 1918. Sarebbe stato per lei motivo di conforto, mi ha scritto, aver dato un contributo alla comunità».