Il Mar cinese meridionale, Trump e la pericolosa deriva guerresca
Non credo che Donald Trump stia progettando per il mare della Cina meridionale una Nato asiatica di cui sarebbero membri tutti i Paesi della regione (dal Brunei a Singapore) che hanno qualche ragione per dubitare delle intenzioni cinesi. L’idea gli è stata attribuita e forse gli è passata per la testa, ma questo presidente degli
Stati Uniti non ama la diplomazia multilaterale delle grandi organizzazioni internazionali e la sua strategia preferita nei rapporti con la Cina è, sin dall’inizio della sua presidenza, quella dei continui colpi di spillo con qualche occasionale colpo di spada, come l’accusa di avere diffuso il coronavirus nel mondo. Ma è certamente vero che la regione si sta progressivamente militarizzando e sta divenendo un potenziale campo di battaglia. La Cina ha esteso da qualche anno il suo territorio alle isole Paracelso, un arcipelago composto da 103 isolotti che nel corso della storia sono stati anche francesi e giapponesi. E allo stesso tempo crea nuove isole con iniezioni di cemento in piccoli tratti di terra che nelle carte marittime erano soltanto scogliere. Nelle scorse settimane due ministre australiane (Esteri e Difesa) hanno firmato a Washington con le autorità Usa un accordo di collaborazione militare per la regione e hanno sottoscritto una dichiarazione comune contro le rivendicazioni territoriali della Repubblica popolare. Vi sono responsabilità in ciascuno dei due campi, ma la situazione sarebbe forse diversa se Trump non trattasse la Cina ormai da qualche anno come un potenziale nemico e non avesse voltato le spalle al Partenariato per il Pacifico (il Trans-Pacific Partnership Agreement) : un accordo che era stato firmato il 4 febbraio 2016, durante la presidenza Obama, da Australia, Brunei, Canada. Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti. Ma Trump ha ritirato la firma nel gennaio del 2017, qualche settimana dopo l’inizio della sua presidenza e gli altri Paesi hanno proseguito sulla loro strada dando un altro nome alla loro iniziativa. Forse la partecipazione americana a quell’accordo, come un’altra iniziativa di Obama che fu chiamata Pivot to Asia (un perno per l’Asia), non sarebbe bastata a tranquillizzare un Paese diffidente e sospettoso come la Cina. Ma avrebbe aperto prospettive commerciali a cui la Cina, oggi, non sarebbe insensibile. Il Paese continua a crescere, ma a una percentuale annua che è scesa dal 10% degli anni migliori al 6,7%. Continua a comprare buoni del Tesoro americano, ma è stata superata nella campagna degli acquisti da Germania e Giappone. La Cina ha grandi risorse ed è molto operosa, ma deve fare i conti con una concorrenza non meno laboriosa in Europa e nelle Americhe. E il governo di Xi Jinping deve sfamare una popolazione di 1 miliardo e 393 milioni. Gli Stati dei mari della Cina sono clienti a cui non conviene voltare le spalle.