Corriere della Sera

«Come sarà l’aldilà?» L’ultima intervista

- di Aldo Cazzullo

La memoria era affievolit­a, non spenta. Così affidò al Corriere i ricordi del suo secolo italiano.

Dei grandi artisti, come dei vecchi soldati, si può dire che non muoiono; svaniscono. E lo svanire è molto diverso dallo sparire.

Franca Valeri stava svanendo già quando l’ho incontrata la mattina di sabato 20 giugno, per l’intervista destinata a diventare l’ultima. Non era più la novantacin­quenne fresca, energica, ironica che avevo conosciuto, dalla risposta prontissim­a. Era ancora una donna elegante, gentile, curata, innamorata dei suoi cani. Sedeva su una sedia a rotelle, da cui non si era più alzata dopo che era caduta e si era rotta otto costole. Portava uno scialle rosso sulle spalle, nonostante facesse caldo, e una stella di David al collo. La sua memoria era affievolit­a, non spenta. Ricordava meglio i fatti lontani. Le parole non sgorgavano più spontanee; andavano distillate una a una.

I suoi ricordi più terribili erano quelli del fascismo: «Papà era ebreo. Quando lesse sul giornale la notizia delle leggi razziali, pianse. Fu il momento più brutto della mia vita». Non poter più andare a scuola, non poter più andare a teatro. «A Milano preparai l’esame a casa, da privatista. Prima andavo al Parini. Provai a dare l’esame al Manzoni, sperando che non se ne accorgesse­ro. Non se ne accorsero. L’Italia è sempre stata un po’ inefficien­te». Il padre e il fratello fuggono in Svizzera, Franca resta in città con la madre, si nasconde tra le macerie di una casa bombardata, in via Mozart. Arrivano le SS, lei riesce a fuggire, la ragazza ebrea con cui divideva il rifugio viene portata ad Auschwitz, da dove non tornerà. Il racconto si concludeva con un grido strozzato — «poverinaaa» — in cui Franca Valeri condensava non solo il proprio dolore ma anche la propria rabbia per quell’ingiustizi­a assoluta. Cosi si spiegano i suoi sentimenti di fronte a piazzale Loreto, al cadavere del Duce appeso a testa in giù: «Nessuna pietà. Avevamo sofferto troppo».

La sua era stata una giovinezza «tardiva ma bella», in «un’Italia in cui tutto pareva possibile»: l’Italia della Ricostruzi­one, e poi quella del miracolo. Un Paese che pensava ancora le donne come maggiorate, prosperose, giunoniche: la Silvana Mangano di Riso amaro, ma anche la Anita Ekberg della Dolce vita. Lei era tutta il contrario: magra, asciutta, nervosa, ironica al limite del sarcasmo. Una donna libera, a volta superiore, che chiamava il marito Cretinetti (indimentic­abile il necrologio che dettò al Corriere in morte di Alberto Sordi: «Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano»). E in un mondo dello spettacolo ancorato agli accenti e ai dialetti regionali, proprio come adesso (anche se non ancora egemonizza­to dal romanesco), lei poteva essere sia la sora Cecioni, sia la Signorina Snob milanese; e magari pure la coreografa ungherese, che fece impazzire Fellini, uno che le donne magre non le amava.

Un giorno Franca andò a proporre a Carlo Ponti un film, che voleva intitolare Le due sorelle (la Valeri i film non li recitava soltanto, li scriveva, così come a teatro poteva essere attrice, autrice, regista).

Ponti rispose che il film era perfetto per sua moglie, Sophia Loren, ma che Sophia e Franca non potevano essere sorelle; potevano però essere cugine. Il film divenne Il segno di Venere: Sophia Loren era la cugina napoletana, Franca Valeri era la cugina milanese; insieme erano l’Italia. Lei del resto si trovava bene con tutti, pure con Eduardo De Filippo, che aveva fama di uomo terribile, e con Totò, di solito taciturno, che con Franca conversava per ore: «Tutti si chiedevano: di cosa parleranno mai Totò e la Valeri? Di cani. Parlavamo di cani. Io ne ho avuti a decine, e ne ho salvati a centinaia. Ma Totò ne ha avuti ancora di più…».

Il suo rapporto con il mondo, con gli animali, con la musica era mediato dalla figlia, Stefania Bonfadelli: la cantante lirica che a 17 anni vinse il concorso inventato dalla Valeri insieme con il compagno di allora, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi. Con l’infinito amore che lega le persone che si sono scelte, Stefania la accudiva, le faceva ascoltare la voce della sua amica Maria Callas — «mangiava pochissimo, solo carne cruda e insalata scondita» —, le metteva il cd della Bohème, la sua opera prediletta. E’ stata Stefania a proteggerl­a negli ultimi mesi, a filtrare le visite, ad attutire le notizie della pandemia, a prepararla alla fine.

La casa di Franca Valeri — milanesiss­ima, aveva abitato a Roma quasi tutta la vita — era in fondo a una traversa di via Flaminia antica. La città lì finisce. Dopo ci sono soltanto prati, campi, alberi. Andare a trovarla, in quel sabato assolato ma non afoso di fine giugno, significav­a davvero sporgersi sul mistero, affacciars­i sul grande vuoto. Franca Valeri non era una persona religiosa. Talora recitava una preghiera ebraica, spiegando che le persecuzio­ni subìte avevano riacceso, più che la fede, l’appartenen­za. Non si può non avere paura della morte, spiegava; si può non pensarci. E se proprio ci si deve pensare, allora meglio chiedersi sempliceme­nte cosa mai ci attenda.

Di solito arrivano a cent’anni o le persone atarassich­e, che sanno anestetizz­are la sofferenza, o quelle un po’ arcigne, che sino all’ultimo assomiglia­no a giovani mediani che arrivano ringhiando su tutti i palloni. Franca Valeri non aveva né l’una né l’altra natura; o forse partecipav­a di entrambe. Aveva la leggerezza di chi non prende quasi nulla troppo sul serio — tantomeno se stessa —, e il puntiglio di chi ha il gusto del lavoro ben fatto, del talento da non sprecare. La sua vera forza, che l’ha condotta al traguardo del secolo, è stata la curiosità, per l’animo umano e per il suo destino. Una curiosità che racchiudev­a in una frase: «Voglio proprio vedere cosa c’è dall’altra parte».

Il decadiment­o fisico non piace a nessuno. I rattoppi lo rendono più evidente, come accade anche per qualsiasi tipo di tessuto

In piazzale Loreto

Non provammo nessuna pietà per Mussolini appeso a testa in giù: avevamo sofferto troppo

 ??  ?? Il necrologio L’amicizia tra Franca Valeri e Alberto Sordi fu lunga e duratura. Quando lui morì nel 2003, lei scrisse questo necrologio: «Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano»
Il necrologio L’amicizia tra Franca Valeri e Alberto Sordi fu lunga e duratura. Quando lui morì nel 2003, lei scrisse questo necrologio: «Ciao, Cretinetti. Franca Valeri, Milano»

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