La parabola del «sei»: oggi il numero è verbo, nell’italiano antico al tu seguiva solo «sè»
10. Sei uno zero recita il titolo di una fortunatissima trasmissione radiofonica. E fino a qualche tempo fa era normale trovare nei messaggini (non solo in quelli dei giovani) forme come c6? per «ci sei?». Anche Sandro Veronesi, fresco del suo secondo premio Strega vinto con
Il colibrì, scriveva qualche tempo fa nella «Lettura» un articolo in cui ribadiva il valore simbolico del numero 6 come «tu sei».
Beh, giochi di parole come questi nell’italiano antico non si sarebbero potuti fare. E non perché la radio, i messaggini e il premio Strega dovevano ancora essere inventati. Ma perché in italiano antico la forma verbale sei non esisteva: non si diceva «tu sei», ma «tu sè». Seee, starà senz’altro pensando qualcuno di voi. E invece le cose stanno proprio così. «La forma sei (seconda persona singolare del presente indicativo di essere) non esiste in italiano antico», affermava il grande filologo e storico della lingua italiana Arrigo Castellani in un saggio del 1999: «in italiano (ovvero in toscano) antico si ha sempre e soltanto, sia all’interno di frase sia in fine di frase, la forma sè». Castellani, andando a ricontrollare i manoscritti, ha verificato che tutti gli esempi finora noti di (tu) sei documentati nei vari testi si devono all’intervento degli editori moderni: nelle versioni originali erano, in realtà, altrettanti (tu) sè.E sè rimane in Toscana l’unica forma usata fino a tutto il Quattrocento. Il passaggio a sei nella lingua letteraria dovette avvenire durante il Cinquecento, come sembra confermare proprio un passo di un letterato cinquecentesco, il viterbese Girolamo Ruscelli: «non si trova mai che il Boccaccio né il Petrarca usasse sei per tu sei, ma sempre sè. Noi oggi usiamo sei più volentieri e con più chiarezza».
Scriveva Ruscelli nel Cinquecento: non si trova mai che il Boccaccio né il Petrarca usasse sei per tu sei