Guarda avanti, guarda dietro La rotta di Petrarca per l’oggi
Tempi moderni Il «Breviario per un confuso presente» di Corrado Augias uscito per Einaudi
«Simul ante retroque prospiciens»: volgo lo sguardo nello stesso tempo al passato e al futuro. Corrado Augias confida di non aver amato Petrarca, «così smanioso di riconoscimenti». Eppure il suo nuovo libro (Breviario per un confuso presente, Einaudi, da settimane nella classifica dei volumi più venduti) parte da una frase del poeta trecentesco che si sentiva al confine tra due popoli, tra due mondi.
Petrarca visse ai tempi della peste che spopolò l’Italia e l’Europa. Conobbe un’era di transizione, tra il Medioevo e il Rinascimento. Un’epoca di grandi trasformazioni, gravida di rischi e di opportunità.
Anche noi oggi, scrive Augias, «viviamo anni rivoluzionari in cui scompaiono abitudini consolidate, canoni politici, riferimenti culturali ed etici che a lungo hanno dato fisionomia alla nostra civiltà». Internet cancella secoli di comunicazione tradizionale, affidata alla stampa e alla carta. La biotecnologia separa l’intelligenza dalla coscienza e minaccia la specificità stessa dell’uomo. Il pianeta è in pericolo per il cambiamento climatico. Da ultima, ecco la grande paura della pandemia.
Per affrontare i temi del nostro confuso presente, l’autore parte dalla riflessione sull’identità nazionale. Molti anni fa, Corrado Stajano intervistò Ferruccio Parri, «uno dei capi della Resistenza, poi, per nemmeno sei mesi, presidente del Consiglio con l’illusione che piccole forze laiche, il partito d’Azione, i repubblicani, potessero farsi baricentro del nuovo sistema politico». Alla domanda su quale fosse la cosa che nella vita l’aveva deluso di più, Parri rispose, a voce bassissima: «Mah, il popolo italiano, ecco». Parole terribili, per uno che era stato il capo del governo. Parole non dissimili da quelle di Pier Paolo Pasolini — «terra d’infanti, affamati, corrotti, di prefetti codini, di avvocatucci unti di brillantina…» — e di Antonio Gramsci: «Ma questo “individualismo” è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva significa forse non essere “partigiani”, non appartenere a nessun gruppo costituito? Niente affatto. Significa che al partito politico o al sindacato moderni si preferiscono forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo “malavita”, quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte».
Eppure sono italiani anche i volontari risorgimentali che accorrono a difendere la Repubblica romana dallo straniero, i fanti che salvano il Paese sul Piave, i partigiani che riscattano l’alleanza con Hitler, i politici che portano i leader della nascente Europa a firmare i trattati di Roma. E «sono milioni gli italiani ignoti che ogni giorno danno prova di cittadinanza: sui treni dei pendolari e nei reparti dei vigili del fuoco, nei pronto soccorso e nelle mense per i poveri, tra chi insegna in strutture inadeguate e chi paga fino all’ultimo euro le tasse dovute. È possibile che non siano la maggioranza del Paese, sicuramente sono loro che lo tengono in piedi».
Anche in un’epoca di cambiamenti impetuosi, in Italia la storia sembra non passare mai. Parlando di fascismo, si chiede Augias, in quale direzione dobbiamo rivolgere lo sguardo? «Il Petrarca citato in epigrafe suggerirebbe ancora una volta di guardare nello stesso tempo indietro e avanti».
Il fascismo storico è morto, e il suo bilancio dovrebbe essere condiviso, tale è stato il disastro della guerra; ma il fascismo, «inteso non come regime ma come stato d’animo, poggia su spinte profonde, istintive, permanenti, della psicologia individuale e collettiva. L’odio verso il diverso e lo straniero, la replica violenta come surrogato dello scambio dialettico, il machismo che si manifesta come disprezzo per le donne e i deboli…».
L’identità italiana ovviamente non può essere schiacciata sulle degenerazioni del presente e sull’eterna discussione circa il regime. Innamorato com’è del nostro Paese e della sua storia, Augias porta il lettore dentro i versi di Manzoni in morte di Napoleone (che nell’esilio di Sant’Elena rimpiange di non aver fatto di più per l’Italia), davanti al rogo di Giordano Bruno — «era un inverno rigido, molti trovarono sollievo al calore di quelle fiamme mentre il filosofo, al quale era stata imposta la mordacchia per impedirgli di parlare, mandava al cielo pochi, disperati muggiti prima di accartocciarsi incenerito» — nel mistero dell’eterna giovinezza dell’Infinito di Leopardi. Sino all’ultimo capitolo: dedicato alla morte.
«Tempo fa feci un sogno spaventoso: aprivo una porta e m’investiva un bagliore accecante, non ricordo se fosse accompagnato da un boato; subito però attribuii quella luce a un’esplosione. Pensai: è fatta, sono morto. Subito dopo pensai: peccato non poter dire addio a nessuno di coloro che amo…». È un capitolo molto bello e profondo. Del resto Augias, tra tante cose, è anche il conduttore di Telefono giallo, l’autore di un libro sul Grand Guignol, uno insomma che della morte, del suo mistero, del suo spettacolo non ha paura. Ed è capace pure di sorriderne. «C’è una barzelletta ebraica che scioglie una parte» degli interrogativi sulla morte «con tipica ironia auto-denigratoria. Il vecchio Samuele sta contando gli ultimi respiri; con un filo di voce, gli occhi ormai quasi spenti, chiede: — David, sei qui? — Sì nonno, ti sono vicino. — E Sara? — Eccomi, sono qui anch’io. — Daniele, tu ci sei? — Anch’io sono qui, nonno —. Con voce di colpo più vigorosa, il morente: - Ma allora a negozio chi ci sta?».
Lui come noi
Il poeta visse ai tempi della peste e conobbe un’era di transizione, di grandi trasformazioni