Quei segnali d’insofferenza verso l’esecutivo
Nel Pd c’è chi pensa a un nuovo esecutivo in caso di vittoria alle urne Ma Franceschini avverte: attenti a non finire con un governo tecnico
Ci fosse un referendum, nel segreto dell’urna in molti nella maggioranza voterebbero Sì. Per un cambio di equilibri a Palazzo Chigi.
L’attuale quadro politico mostra una fragilità che nessun rappresentante della coalizione tende più a nascondere e che prescinde persino dall’esito delle Regionali. Ma siccome nessuno vuole intestarsi la responsabilità di far cadere il governo, «finirà che per rompere lo stallo — come scommette un autorevole dirigente grillino — ci si affiderà a un incidente parlamentare». Sarebbe un classico esempio di crisi senza padri, l’opzione estrema per ridurre il danno e insieme porre Conte davanti al fatto compiuto.
Si vedrà se davvero l’esecutivo verrà fatto «casualmente» incespicare alle Camere, ma proprio l’evocazione di questo espediente rivela quanto sia profonda la crepa che divide il premier dai partiti di maggioranza, che — per dirla con un dirigente dem — non accettano di vedere la politica derubricata «a una mera gestione amministrativa e mediatica di Palazzo Chigi». Finora Conte ha tratto la sua forza dalla debolezza delle forze che lo sorreggono. Il punto è che adesso M5S e Pd non sembrano riuscire più a reggersi, e il voto rappresenterà per entrambi una sorta di turning point.
I grillini hanno puntato tutto sul referendum per tentare di nascondere il fallimento che le urne disveleranno. Perché non si è mai visto un partito di maggioranza relativa in Parlamento — che esprime il presidente del Consiglio, vanta il presidente della Camera e controlla numerosi ministeri — non avere rappresentanti ai vertici delle regioni. E le elezioni dimostreranno che, nella sfida con il centro-destra, M5S o sarà irrilevante ai fini del risultato o sarà determinante per la sconfitta degli alleati. Inoltre il referendum segnerà l’esaurimento dell’originaria ragione sociale del grillismo: con qualsiasi esito, il Movimento non potrà più funzionare così com’è.
Il Pd è nelle stesse condizioni, siccome il consuntivo di un anno del Conte-bis è a saldo negativo, perché come ha detto l’ex ministro dell’Interno Minniti in una riunione, «non siamo finora riusciti a incidere per far emergere una nuova fase». Non è l’unico a sostenerlo, visto che importanti esponenti dem si chiedono «quale sia stato finora il tratto distintivo dell’esecutivo giallorosso»: è vero, la pandemia ha coperto tutto, ma «tolti i provvedimenti per il Covid 19, tolti i Dpcm e le norme eterogenee che abbiamo dovuto votare nei decreti, quale legge ha caratterizzato il profilo della maggioranza»?
Sono domande che si portano appresso un altro interrogativo: i partiti-pilastro dell’alleanza potrebbero sopporre, tare dopo il voto di essere l’epicentro della crisi politica pur di salvaguardare il governo? La risposta è scontata. Ieri Zingaretti ha pronunciato le stesse parole usate da Salvini prima che il leader della Lega togliesse la fiducia a Conte: «Fino a che ci sono cose da fasi va avanti». D’altronde, il segretario del Pd in questa sfida elettorale ha portato la croce senza ricevere pubblico sostegno dal premier. E quando l’ha chiesto, si è sentito rispondere che «Palazzo Chigi non può esporsi».
È la prova di quanto Di Maio aveva già certificato, e cioè che il premier lavora solo per sé. La centralità di Conte è Conte, come raccontano nel governo citando un aneddoto del momento più grave della pandemia. Allora il presidente della Lombardia Fontana chiese al presidente del Consiglio di testimoniare la vicinanza dell’esecutivo con una sua visita, e si sentì inizialmente rispondere: «Vediamo... Sai, se poi mi ammalo, come si fa?». Il titolare della Farnesina — che in campagna elettorale si è speso quasi esclusivamente per il referendum — nei colloqui con gli alleati non è sfuggito al tema del governo, che avrebbe bisogno di un maggior tasso politico o di un maggior tasso di competenza tecnica, in vista di una fase che si preannuncia delicata per il Paese.
Sarebbe un errore però ridurre il problema al tema del rimpasto, perché il rimpasto non esiste. Come spiega infatti un ministro del Pd, nel caso di un risultato «soddisfacente per noi» alle Regionali, potrebbe concretizzarsi semmai «un cambio di squadra», cioè un nuovo gabinetto. Un passaggio rischioso, come ammonisce Franceschini: «Perché se noi aprissimo il vaso di Pandora, senza poi essere in grado di chiuderlo, ci ritroveremmo con un governo tecnico». Dalle parole del capodelegazione dem si capisce che non ci sarebbero elezioni anticipate all’orizzonte in caso di crisi: c’è il Recovery fund da istruire. Per molto meno Scalfaro disse a Berlusconi nel ’95 che non gli avrebbe potuto concedere il voto anticipato «perché l’Italia dovrà guidare il semestre europeo». Lo slogan oggi è «Conte non si tocca». Ma senza il pericolo delle urne per i parlamentari, dovrà fare attenzione agli incidenti.