Corriere della Sera

Attraverso il pianeta senza carte E non ho né bussola né tenda

Franco Michieli L’esplorator­e estremo fa a meno di orologio e sponsor «Partii conclusa la maturità: le Alpi in 81 giorni dalla Liguria a Trieste»

- di Stefano Lorenzetto

Per il viaggio di nozze portò la moglie sulla cima del Rinjani, vulcano attivo dell’Indonesia, 3.726 metri. Per far divertire i figli Filippo e Tommaso, che allora avevano 7 e 5 anni, scelse una vacanza di 11 giorni a Lundøya, isola disabitata a nord del Circolo polare artico. Immaginars­i dunque la sofferenza di Franco Michieli, geografo ed esplorator­e, durante i mesi del lockdown, chiuso nella sua casa di Bienno, in Val Camonica, ai limiti di un bosco oltre il quale c’è il sentiero che porta fino all’Adamello. «Per tenermi allenato facevo 250 volte su e giù dalla cantina al primo piano, 34 gradini», che detto così sembra niente, però sono 1.500 metri in salita e 1.500 in discesa, cioè l’altezza del Catinaccio nelle Dolomiti. «Però Rob Ferguson ha scalato 6.000 rampe di scale, in pratica l’Everest», si schermisce. Ma l’inglese s’è cimentato nell’impresa una volta sola, Michieli tutti i giorni per l’intero periodo dell’isolamento da Covid-19.

Oltre alla modestia, quest’uomo dalla barba abramitica ha un’altra dote: perlustra catene montuose e terre selvagge senza mappe, senza bussola, senza Gps, senza trasmitten­ti, senza cellulare, senza orologio. Spesso persino senza tenda. E sempre senza sponsor. Attraversa­te estreme in solitaria, che durano parecchi mesi, come quella della Norvegia, 4.000 chilometri, quando aveva 23 anni.

In che modo iniziò quest’avventura?

«Per passione. Il 23 luglio 1981 tornai a casa dall’orale dell’esame di maturità, presi lo zaino e partii in treno per Ventimigli­a con Andrea Matteotti, mio compagno di banco al liceo Einstein di Milano. Suo nonno era cugino di Giacomo Matteotti, il martire socialista. Volevamo percorrere a piedi le Alpi. Dopo otto giorni, Andrea preferì i parchi americani».

Invece lei proseguì?

«Sì, per altri 73 giorni, fino a Trieste. Avevo solo sacco a pelo e stuoia, dormivo all’addiaccio. Toccai sette volte vette superiori ai 4.000 metri, a cominciare da monte Bianco e monte Rosa. Un’esperienza che sono riuscito a raccontare solo ora, a 29 anni di distanza, nel libro L’abbraccio selvatico delle Alpi».

Che cosa la bloccava?

«Tornato a Milano, mi resi conto che il momento più duro è quando devi lasciare la natura e riprendere i ritmi della nostra civiltà. Vengono a mancarti le parole per comunicare l’esperienza vissuta».

Lei dice di avere la montagna nel Dna.

«Mio nonno, Adriano Augusto Michieli, scrisse le biografie del Duca degli Abruzzi, oggi ripubblica­ta dal National Geographic, e di molti esplorator­i: Amundsen, Livingston­e, Stanley, von Humboldt. Morì nel 1959, ma è come se l’avessi conosciuto. Conservo nitidi ricordi della baita nel gruppo del Civetta dove mia nonna, Maria Favretti, originaria di Agordo, mi portò la prima volta quando avevo appena 12 mesi. Il resto è venuto di conseguenz­a».

Cioè?

«Mi sono laureato in Geografia con una tesi sul Gran Paradiso. Lì ho svolto il servizio militare negli alpini. Mentre correvo durante le libere uscite dalle 18 alle 23, ho conosciuto Giovanna Davini, la prima donna guardaparc­o d’Italia, che è diventata mia moglie. Anche lei un’arrampicat­rice: ha raggiunto i 7.546 metri del Muztagata, nel Pamir».

E la sua prima scalata, Michieli?

«Avevo 6 anni. Ero nella casa dei nonni materni a Valtournen­che. Su una cima vedevo un puntolino bianco: una chiesetta. Domandai a mio padre di portarmici. Affrontamm­o un versante impervio. Una volta lassù, mi si aprì il mondo».

Ho letto che lei ha «la vocazione di perdersi». Che significa?

«Che nei momenti in cui la via non è chiara, e credi di esserti smarrito, accadono cose di straordina­rio interesse».

La solitudine è considerat­a una malattia. Per lei è uno stato edenico?

«Esatto. Nella natura non mi sento mai solo. Dobbiamo intenderci. C’è una solitudine negativa ed è quella di chi non riesce a trovare relazioni profonde e stabili. E c’è la solitudine cercata da eremiti, sciamani ed esplorator­i, nella quale entri in intimità con i viventi e tutto comincia a parlarti, prendi contatto con l’invisibile. Il guaio più grande del nostro tempo è che consideria­mo conoscenza solo ciò che esce dal nostro cervello».

Carte topografic­he e navigatori satellitar­i non le servono.

«Non pensavo che si potesse farne a meno. Ci sono arrivato solo 17 anni dopo la traversata delle Alpi. Per me, geografo, è stata un’agnizione. Se ci riflette, i nostri antenati e gli animali migratori non hanno mai avuto bisogno di questi strumenti. In noi esistono le mappe mentali e le bussole naturali».

Per esempio?

«Il sole. Lo vediamo spostarsi perché la terra gira verso Oriente. In ogni ora del giorno ci indica il punto cardinale».

Che altro?

«Le nuvole. Si formano con regolarità su montagne che ancora non vedi all’orizzonte. I corsi d’acqua e i crinali. Formano un disegno sul terreno. Il vento. Ti fa mantenere una rotta anche quando tutto sparisce nella nebbia. Persino dopo che ha smesso di soffiare, lascia sulla neve i sastrugi, erosioni simili a onde dotate di una precisa direzione».

Niente Google Maps o Google Earth.

«Imito Leonardo da Vinci: “Nessun effetto è in natura senza ragione; intendi la ragione, e non ti bisogna esperienza”».

Senza orologio come calcola il tempo?

«Tengo un diario».

Non racconta le sue missioni in diretta sui social network?

«No. Lascio depositare le sensazioni. Non voglio distrarmi, devo restare presente a me stesso. Se pensassi a cosa scrivere, perderei qualcosa di sottile».

Non usa i social neppure a casa?

«Durante il lockdown sono stato costretto ad aprire un account su Instagram, non potendo presentare di persona i miei libri. C’è una pagina Facebook a mio nome, ma non sono io a curarla».

Lei bolla Internet come le colonne d’Ercole della società contempora­nea.

«È così. Un tempo erano il limite del mondo conosciuto. Oggi la geografia sta scomparend­o. Non importa dove ci troviamo: i rapporti avvengono nella Rete. Tutto è ovunque e in nessun posto. Quello che sta al di fuori del web, è un pianeta in cui non si trova più quasi nessuno. Quindi da esplorare. È ciò che faccio».

La prima cosa che mette nello zaino?

«Da qualche tempo è la tenda. L’ultima è un piccolo asciugaman­o».

Come si lava?

«Non ha idea di quanto deterge la pioggia battente. E poi ci sono i ruscelli».

Che cosa non deve mancarle mai?

«Viveri per 20 giorni, razionati, non più di 3.000 calorie quotidiane: muesli, couscous, frutta secca, cioccolato, parmigiano, preparati a base di uova. Lo zaino pesa 25-30 chili. Nella traversata delle isole Lofoten e Vesterålen e dell’Islanda, 70 giorni, l’esperienza più dura della mia vita, sono arrivato a 35 chili di carico».

E se le viene la febbre?

«Mi fermo a riposare e me la tengo il più possibile, così ammazza i batteri. Ho preso gli antibiotic­i una sola volta, per un’infezione provocata da una spina che mi aveva quasi trapassato un pollice».

Se si rompe una gamba durante una traversata in solitaria, è spacciato.

«Probabile. L’ho messo in conto. Però mi spaventa di più un viaggio in auto».

Non finirà sbranato da qualche animale, mentre dorme all’aperto?

«È un pensiero che all’inizio ti tiene sveglio. Ma dopo scopri che non può accadere. I lupi si tengono alla larga, hanno paura dell’uomo. L’unico pericolo si corre quando sei in movimento e per sbaglio ti frapponi fra una mamma, per esempio un’orsa, e i suoi cuccioli».

Ha mai rischiato di morire?

«Varie volte. Il primo giorno della traversata delle Alpi, verso il Colle di Cadibona, c’erano branchi di cani randagi molto feroci. Al Passo del Baldiscio fui investito da una terrifican­te tempesta di fulmini. In Islanda, sul ghiacciaio Vatnajökul­l, il più grande d’Europa, vasto quanto la Corsica, ho temuto di non ritrovare più la via del ritorno».

Sbaglio o predilige i luoghi freddi?

«Non sbaglia. È il motivo per cui non ho mai attraversa­to il Sahara ma solo le tundre di pietra nell’estremo nord della Norvegia, immensità laviche prive di acqua, in tutto e per tutto simili ai deserti».

Popolazion­i ostili ne ha incontrate?

«A 20 anni, nel Supramonte, attraversa­ndo la Sardegna, i ragazzini mi tiravano i sassi. Non per cattiveria: solo perché io sembravo ricco e loro erano poveri. Lo stesso mi accadde in Nepal».

Il posto più inospitale dov’è stato?

«La tangenzial­e est di Milano».

C’è un luogo che le rimane nel cuore?

«La Cordillera Blanca del Perù. Sono stato sulle Ande già 12 volte. Me le fece conoscere padre Ugo De Censi, un missionari­o morto nel 2018 all’età di 94 anni. Volle che insegnassi le tecniche dell’alpinismo ai figli dei campesinos».

Non prova sensi di colpa verso i suoi cari, che restano a casa da soli per mesi?

«No, perché questa passione ci accomuna. Da quando ho famiglia, modero le assenze e provo il desiderio di tornare. Prima ero solo felice di stare lontano».

Ma rimane ancora qualcosa da scoprire sulla faccia della terra?

«Penso proprio di sì. Secondo la fisica quantistic­a, le cose in sé non esistono, tutto si trasforma. Molti nostri bisogni sono indotti e non ci accorgiamo che le soluzioni sono dentro di noi».

Il pianeta è in pericolo?

«Le catastrofi paventate da Greta Thunberg sono già accadute. Penso alle motoslitte. Le ho trovate persino sul lago ghiacciato Inari in Lapponia. Dove c’erano neve e silenzio, ora c’è frastuono».

Che cosa ha imparato dai suoi viaggi?

«A vedere quanto è piccolo l’uomo».

Mi oriento con sole, nubi, vento Ho messo in conto di morire durante una spedizione. Lo zaino può arrivare a pesare 35 chili

 ??  ?? Solitario Franco Michieli, 57 anni, geografo ed esplorator­e, sulle Alpi. Nella foto sotto, a 18 anni, durante la traversata della catena montuosa
Solitario Franco Michieli, 57 anni, geografo ed esplorator­e, sulle Alpi. Nella foto sotto, a 18 anni, durante la traversata della catena montuosa
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