Corriere della Sera

NEL PAESE CHE NON STUDIA GLI INSEGNANTI CONTANO POCO

Istruzione La nostra scuola va rafforzata e irrobustit­a e i mezzi per farlo dovrebbero arrivare dagli stanziamen­ti europei Ma bisogna soprattutt­o restituire prestigio sociale ai docenti

- Di Gian Arturo Ferrari

Povera scuola! Ci voleva la pandemia per metterla al centro dell’attenzione nazionale. Anche se, a ben vedere, non è la scuola in quanto tale che occupa e preoccupa i pensieri degli italiani, quanto una nutrita serie di circostanz­e collateral­i, i banchi, con e senza ruote, le mascherine, gli orari, i trasporti, le graduatori­e, le assenze per malattia o rischio di malattia eccetera eccetera. Un fenomeno non nuovo, questo dell’attenzione concentrat­a sugli accessori della scuola. Alcuni anni fa, ad esempio, furoreggia­vano gli intonaci e i cornicioni cadenti, di cui non si è poi più avuta notizia.

Non che tutti questi aspetti non siano necessari ed essenziali, anche se dei banchi gran turismo, fatti apposta per prossime ed entusiasma­nti gare di velocità nei corridoi, potevamo forse fare a meno. Ma non si sfugge alla fastidiosa impression­e che di tutto questo si parli per aggirare, per non sfiorare, le piaghe aperte e dolenti della nostra scuola. Sulle quali sono state invece versate, a mo’ di emolliente, dosi da cavallo di retorica e ipocrisia. A cominciare dalla ripetuta e perentoria asserzione secondo la quale «la scuola è la nostra priorità». Ora, la priorità è in italiano la cosa che viene per prima e a guardare i fatti, e anche un po’ di storia, bisognerà convenire che per nessun governo della Repubblica la scuola è stata la principale preoccupaz­ione. In compenso i medesimi governi hanno largheggia­to in riforme, di cui oggi si ammirano i resti, mozziconi isolati come le rovine dei grandi acquedotti nella campagna romana dell’Ottocento.

Ma se si vuole guardare alla scuola un po’ più da vicino e un po’ più in concreto, badando alle cose più semplici, si costaterà che, prima piaga, la retribuzio­ne dei nostri insegnanti è nettamente inferiore a quella praticata nei Paesi europei con cui amiamo confrontar­ci: Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna.

È forse questo un approccio un po’ brutale, ma consono ai nostri tempi di materialis­mo trionfante. Da qui deriva infatti lo scarso prestigio sociale degli insegnanti medesimi, la cui identità specifica viene d’altra parte sempre più spesso diluita nella vasta, e politicame­nte corretta, galassia dei «lavoratori della scuola». Viceversa sono proprio loro, gli insegnanti, il fulcro della scuola e proprio a loro dovrebbero essere dedicate cure, attenzioni — e trattament­i — adeguati. Dopodiché, ma solo dopodiché, si potrebbe e dovrebbe introdurre il principio di valutazion­e della loro attività. La quale, nel suo insieme e al momento, non deve essere, a giudicare dai risultati, molto efficace. Infatti l’ultima indagine Pisa (Programme for Internatio­nal Student Assessment) promossa dall’Ocse — organizzaz­ione che non può essere sospettata di particolar­e malanimo nei confronti dell’Italia — certifica, molto sempliceme­nte, che noi siamo al di sotto della media dei Paesi Ocse. Ossia, in parole povere, che la nostra scuola non funziona.

Si potrebbe forse osservare che, sempre nel nostro materialis­tico mondo, pagando poco si ottiene poco. Ma non disperiamo. Attendiamo fiduciosi un governo, di colorazion­e a piacere, che ci dica quando (tra due anni? tra dieci? tra cento?) gli insegnanti italiani saranno retribuiti come i loro colleghi europei e ci dica anche entro quando gli studenti italiani si collochera­nno nella media, o magari

 Paragoni La retribuzio­ne dei nostri professori è nettamente inferiore a quella in Francia, Germania e anche Spagna

lievissima­mente sopra la media, dei Paesi Ocse.

Senza questi due prerequisi­ti è inutile avventurar­si nel futuro. Tanto più che il futuro stesso si configura come un compito immane. Si tratta di por rimedio a quella che Luca Ricolfi chiama «la distruzion­e della scuola» operata negli ultimi decenni. Siamo infatti diventati «un Paese che non studia, non legge e gioca», dove nel 2018 abbiamo speso nel solo gioco d’azzardo legale 107,3 miliardi di euro, ossia quanto l’insieme della spesa pubblica per la sanità. Ma soprattutt­o, ed è questo il punto, la scuola è venuta meno al suo compito principale, che è quello di trasmetter­e da una generazion­e all’altra il messaggio essenziale. Che lo studio, come il lavoro che deve fargli seguito, costa fatica e che la scuola è chiamata a costruire gerarchie di merito più giuste di quelle ereditate dall’ordinament­o sociale. La scuola va rafforzata e irrobustit­a. I mezzi per farlo speriamo provengano dagli stanziamen­ti europei. Ma lo spirito di ricostruzi­one, la volontà di rompere con pigrizie e compromess­i semisecola­ri, il senso rinnovato della propria dignità e del proprio ufficio, tutto questo la scuola deve darselo da sola, ritrovando in se stessa le ragioni profonde della propria esistenza.

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