La sete punitiva genera mostri Rieducare i carcerati si può
Nel libro «Vendetta pubblica» (Laterza) Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna smentiscono molte leggende
«Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo secondo l’uso lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo». Che cosa ci avrebbero guadagnato, la città e gli amici e la famiglia stessa del giovane ucciso per uno sgarbo, se l’allora violento Lodovico fosse stato buttato per sempre in una galera? E che cosa ci avrebbero perso, al contrario, tutte le persone benedette dal frate manzoniano nella sua nuova vita dedicata a scontare la propria colpa e a risarcire quanto più poteva donando sé stesso agli altri?
Certo, non tutti gli assassini dedicano la vita a espiare il proprio delitto e farsi perdonare. A quella domanda sul senso del carcere come castigo inflitto dallo Stato per conto anche delle vittime del reato, però, risponde la stessa Costituzione italiana. Articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Quello è l’obiettivo finale. E in quello si riconoscono il magistrato Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, e il giornalista del «Corriere» Edoardo Vigna, autori di un libro il cui titolo dice tutto: Vendetta pubblica, 160 pagine, edizioni Laterza. Dove spiegano che no, quell’articolo 27 «non è una regola ispirata da Papa Francesco, che ancora recentemente ha voluto esplicitamente dichiarare quanto sia importante per le persone che sono in carcere avere una speranza: “Non può esserci una pena senza un orizzonte”, ha detto. No, è proprio la nostra Costituzione ad aver fissato questa norma. E questo principio».
E da lì partono raccontando le condizioni in cui versano oggi le carceri italiane, rovesciando uno dopo l’altro, con i numeri, un po’ tutti gli stereotipi urlati in tanti slogan di facile presa: «Bisogna sbatterli dentro e buttar via la chiave», «Hanno pure la tivù!», «Dentro si vive meglio che fuori», «Alla fine in carcere non ci va nessuno»... Prendiamo quest’ultima leggenda: «Nel giugno del 1991, quando il primo dato del genere è stato pubblicato dal Ministero della Giustizia, dietro le sbarre c’erano 31.053 persone, su una popolazione italiana di 56,7 milioni. Oggi, come abbiamo visto, i detenuti sono quasi il doppio, su 60,3 milioni di abitanti». Col risultato che le celle sono due volte più affollate. E in una cella di tre metri per tre vengono ammucchiati anche quattro letti e un lavandino. A dispetto perfino del Codice Rocco fascista che nel 1930 «prevedeva per tutti che la pena detentiva andasse espiata in isolamento “notturno”». Anzi, «gli art. 22 e 23 del Codice penale ancora adesso lo prevedono nell’ottica liberale secondo cui l’uomo deve espiare la pena da solo perché deve meditare su ciò che ha commesso, senza esserne costretto. Solo così può migliorare». Macché, appiccicati così c’è anzi il «contagio criminale: un ladro in cella con un rapinatore impara a fare rapine, e il rapinatore quando esce può contare su un complice in più».
«Troppi detenuti? Costruiamo più carceri!», propongono da anni i paladini securitari. Val la pena? Mah... Negli Usa, nonostante siano in galera oltre due milioni di persone, la sola Chicago (più o meno gli abitanti di Roma) registrò nel 2016 ben 762 omicidi: il doppio dei 397 contati allora in Italia. E il Viminale spiega che tra il Ferragosto 2019 e quello 2020 da noi i morti ammazzati son scesi ancora: 278. A farla corta, scrivono Bortolato e Vigna, al di là dei dubbi sulle «carceri d’oro» tutte uguali, brutte e alienanti, «più prigioni edifichi, più tendi a riempirle. Più grande è il secchio, più acqua ci metterai per soddisfare la sete punitiva di una parte dell’opinione pubblica». Senza la certezza di risultati apprezzabili. Anzi.
Insomma, la strada per non far esplodere i penitenziari come nei giorni del terrore della pandemia (tredici morti nelle rivolte) o non essere costretti a nuove amnistie, tipo quella varata nel 2010 dal governo Berlusconi, è una sola: puntare ancor più, come dice la Costituzione, sul recupe
Celle sovraffollate
La soluzione di costruire nuovi penitenziari è illusoria. Negli Usa lo hanno fatto e il crimine resta ben più diffuso che in Italia
ro dei detenuti. Più scuole, più docenti, più corsi professionali. Più opportunità da offrire a chi vuole imparare un mestiere seguendo esempi virtuosi come i laboratori «di sartoria, pasticceria, profumeria, informatica...». Più aperture verso quanti mostrino di aver capito gli errori fatti.
«Li metti fuori coi permessi premio e ciao, non tornano più», attaccano i bellicosi custodi della pubblica vendetta «in cui si ha la soddisfazione di vedere che, se uno ha fatto del male, soffre fino all’ultimo giorno della condanna». È vero, può capitare, replicano Bortolato e Vigna. Nell’1,08% dei casi la fiducia vien tradita, ma le statistiche dicono che «nel 98,92% va tutto bene». Solo che quel dato del 98,92% non finisce sui giornali. Non è buono per far politica...
E quello è il punto: vale la pena di riporre fiducia perfino in chi ha commesso crimini spaventosi? «All’entrata dell’ex carcere ottocentesco di Pianosa», ricorda il libro, «vi è la scritta: “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori”, motto ripreso dalle Apac (le carceri brasiliane senza guardie né armi, dove sono i detenuti ad avere le chiavi e dalle quali nessuno vuole scappare), “Aqui entra o homem, o delito fica lá fora”. Parole che ricordano un pensiero dello scrittore tedesco Hermann Hesse: “Nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo”».
Una tesi fatta propria dallo scienziato Umberto Veronesi per chiedere l’abolizione dell’ergastolo: «È insensato», era il succo del suo discorso, «tenere in carcere una persona fino alla fine dei suoi giorni: anche l’assassino più crudele dopo vent’anni è cerebralmente differente dall’uomo che ha commesso quel delitto».
Forse pochi, per quanto trattati con giustizia, si avvieranno sulla strada del grande frate manzoniano. La possibilità di provarci però, dati alla mano, vale la pena di dargliela…