Ripresa, il freno delle incertezze
Il ruolo dell’Unione L’immagine di rinnovato slancio europeo è offuscata dal fatto che molti atti normativi chiave devono ancora essere varati e c’è il rischio di ripensamenti
In Europa, da mesi il dibattito politico ruota intorno al cosiddetto Recovery fund volto a finanziare il rilancio economico con investimenti e riforme strutturali. La sfida per il suo impiego efficiente e rapido riguarda sia gli Stati, sia le istituzioni dell’Unione Europea. La diffusa tendenza è di badare perlopiù a cosa fanno o non fanno i governi, i Parlamenti e le pubbliche amministrazioni nazionali. In effetti, dalle loro scelte e dall’efficacia realizzatrice dipenderà buona parte del successo (mercoledì sono uscite le linee base italiane). Tuttavia, non va dimenticato che è l’Unione stessa, con i suoi organi operativi, che deve assicurare numerose decisioni nodali. Osservato da questa prospettiva, il contesto attuale continua a mostrare fluidità e incertezze che, malgrado le frequenti solenni asserzioni di buoni propositi, non confermano quell’immagine di ritrovato slancio che si vuole accreditare.
Anzi, poiché a Bruxelles bisogna ancora approvare atti normativi chiave e chiarire vari punti, i più critici e dubbiosi evocano perfino possibili colpi di coda degli scontenti del compromesso raggiunto a luglio al Consiglio Europeo. Per esempio, sono riprese vivaci dispute sulla previsione di esplicite condizionalità per accedere ai finanziamenti Ue, connesse all’osservanza da parte dei governi beneficiari di valori fondanti, quali lo «Stato di diritto». Questione importante che meriterebbe un dibattito serio, non strumentale a retropensieri, magari per rinegoziare l’assenso dato a luglio. Non è l’unica contrapposizione e ciascuna accresce le insidie sulla sempre pendente cruciale decisione Ue per le ulteriori «risorse proprie» (le entrate del bilancio Ue) destinate a garantire e rimborsare le emissioni di debito comune necessarie per il Recovery fund. La sua approvazione richiede l’unanimità al Consiglio Ue e, poi, il voto favorevole in tutti i
Nuove polemiche
Parlamenti degli Stati. Se uno soltanto dicesse no, lo scenario muterebbe di netto e, come minimo, il saldo positivo del flusso finanziario si ridurrebbe parecchio. Un guaio per l’Italia che vedrebbe quasi dimezzate le sovvenzioni annunciate.
Un altro profilo essenziale attiene al ruolo dell’Unione: c’è tanto da fare, da spiegare, soprattutto da semplificare a fronte delle grandi aspettative. A fine maggio era stato pubblicato il progetto del regolamento Ue per il Recovery fund: contiene disposizioni severe e insolitamente meticolose, già illustrate su queste pagine. Sono norme prioritarie, ma potrebbero cambiare perché sinora non adottate né dal Parlamento europeo, né dal Consiglio. La carenza legislativa cagiona insicurezza giuridica. Nel frattempo, la Commissione europea supplisce — per così dire — con «linee guida» (pubblicate giovedì) e documenti di lavoro (meno conosciuti, ma reperibili in rete: www.politiche europee.gov.it). Così, un singolare effluvio di «soft-law» precorre, con precisazioni, chiarimenti e interpretazioni la formale disciplina del fondo che per ora non c’è. Come è noto, la Commissione ha abitualmente il compito di vigilare sul diritto Ue e di agire contro le violazioni: dunque, le valutazioni preventive che fa hanno notevole influenza, condizionano. Fra le sue recenti prese di posizione, alcune sono di particolare rilievo e almeno tre meritano di essere sottolineate.
La prima, apre a un uso del Recovery fund per una riduzione delle tasse: purché alleggerisca quelle sul lavoro, valga a rimuovere ostacoli agli investimenti privati o sia strettamente funzionale al varo di una riforma strutturale in un Paese. Se ne è parlato molto ed è un’idea condivisibile. La seconda affermazione, invece, è più critica: dichiara l’applicabilità delle regole Ue sugli aiuti statali alle imprese anche ai finanziamenti del fondo. Tuttavia, le risorse in causa non sono «statali», bensì dell’Unione e il fondo sarà «in regime di gestione diretta» della Commissione (non dei singoli governi nazionali); per giunta,
Sono riprese vivaci dispute sulla previsione di esplicite condizionalità per accedere ai finanziamenti
l’individuazione dei progetti da sostenere avviene solo con l’approvazione esplicita di Commissione e Consiglio. A cosa serve allora, nel quadro eccezionale del Recovery fund, ribadire l’esigenza delle complicate procedure ad hoc sugli aiuti statali, che possono portare a escludere svariate imprese dai benefici? E comunque, perché non stabilire subito una specifica liberatoria generale, ai sensi della deroga Ue che consente gli aiuti destinati a «progetti di comune interesse europeo» o «a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia»? La logica attuale sfugge e appesantisce il contesto. La terza puntualizzazione del documento inietta una nota di apprensione ai Paesi a rischio di una procedura per indebitamento eccessivo (adesso in moratoria, ma per quanto?). Se si trovano in tale procedura d’infrazione e tardano nelle azioni correttive per uscirne, i finanziamenti del Recovery fund potrebbero essere sospesi a guisa di sanzione. Disegno opinabile, dato che sono proprio gli Stati – come la nostra Italia – in maggiore difficoltà di bilancio e quindi, passibili di procedura ad avere più necessità di fondi Ue (straordinari e ordinari). Inoltre, una siffatta condizione incombe sull’avvenire e rende questi Stati ulteriormente subordinati a eventuali future raccomandazioni e prescrizioni macroeconomiche dell’Unione.
Insomma, non sono tutte rose e finché siamo in tempo, ci sarebbe ancora materia da discutere, da noi e nelle riunioni europee.