Dissenso, grinta, flessioni e un marito amatissimo Ruth, l’icona femminista «superdiva» tra i più giovani
A Ruth Bader Ginsburg WASHINGTON piaceva essere chiamata «la giudice del dissenso». Ma in realtà, per almeno trent’anni, è stata una delle più formidabili costruttrici dell’America moderna. Aveva la capacità, di questi tempi piuttosto rara, di trasformare i grandi ideali in cose visibili. Leggi e sentenze nel suo caso. Pari opportunità tra donne e uomini, dignità e tutela per ogni tipo di lavoro, garanzie per i diritti universali, compreso il matrimonio tra omosessuali. Nel 1993 Bill Clinton la nominò giudice della Corte Suprema, il massimo organismo giuridico degli Stati Uniti. Prima di lei ci era arrivata solo un’altra donna, Sandra Day O’ Connor, scelta da Ronald Reagan.
Attivista e pragmatica, secchiona e grintosa, amante dei guantini di pizzo e delle felpe da ginnastica. È morta ieri a 87 anni, nella sua casa di Washington, sconfitta dal tumore al pancreas, l’ultimo di una serie cospicua. Se n’è andata raccomandando a una delle nipoti: «Il mio più fervente desiderio è di non venire sostituita fino a quando non si sarà insediato il nuovo presidente». Ma Trump si sta già muovendo per consolidare la maggioranza conservatrice tra i nove togati.
Ieri il presidente ha avuto parole di ammirazione nei suoi confronti, dimenticando quella volta che Ruth gli aveva dato pubblicamente dell’«impostore». Poi la magistrata riconobbe di aver esagerato e se ne scusò. Così come attenuò il primo giudizio («ma che stupidata») sulla protesta di Colin Kaepernick, il giocatore di football che si era inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno nazionale.
Non era solo un genio giuridico. Era anche, e forse soprattutto, uno spirito libero. Ecco perché negli ultimi anni entusiasmava i giovani. La sua immagine è tra i tatuaggi più popolari e compare su magliette, tazze, sacche da spiaggia. Una star sorprendente, che teneva banco anche sui social. «Non posso uscire di casa, che c’è qualcuno che vuole farsi una foto con me», aveva raccontato a Yahoo!.
Nata a Brooklyn da una famiglia di ebrei russi, studia alla Cornell University, dove, diciassettenne, incontra Martin Ginsburg, l’uomo che sposerà tre anni dopo e con cui avrà due figli. Nel 1956 si iscrive alla Harvard Law School, insieme con il marito, il suo sostenitore più acceso. «A un certo punto ero pronta per il lavoro — raccontò in un’ intervista alla Cbs — E quante offerte ricevetti? Zero. Avevo tre cose contro di me. Primo: ero un’ebrea. Secondo: ero una donna. Ma la cosa peggiore era la terza: avevo un figlio di quattro anni».
Nel 1972 fonda una delle associazioni chiave di quegli anni, «Women’s Rights Project», con l’American Civil Liberties Union. Comincia il suo lavoro in profondità, il suo tratto intellettuale distintivo. Un solo esempio, ma di capitale importanza. Ruth Bader Ginsburg criticava la sentenza chiave in materia di aborto, la
Roe v. Wade del 1973. Il diritto all’autodeterminazione non doveva discendere dal concetto di libertà personale o di privacy, bensì dalla protezione fisica e morale garantita ai cittadini dalla Costituzione.
Il suo principale avversariointerlocutore era Antonin Scalia, la quinta essenza della dottrina conservatrice. I due hanno animato fiere discussioni e coltivato un’intensa amicizia, oltre che la passione comune per l’opera. Nel 2015 la rivista Time inserì Ginsburg tra i 100 personaggi più influenti e chiese proprio a Scalia di scriverne il profilo. Un’impresa. Difficile afferrare fino in fondo una personalità come quella di Ruth. Nelle sentenze adottava un linguaggio ricercato, non convenzionale. Due volte alla settimana si presentava in una palestra di Washington: venti flessioni, qualche esercizio alla panca, indossando una felpa con la scritta: «Super diva».