Corriere della Sera

Il «folle volo» di Ulisse che annunciò l’era moderna

- di Aldo Cazzullo

Icompagni di Ulisse erano ormai «vecchi e tardi», anziani e lenti. Ma l’eroe riesce a rianimarli, con un discorso breve e formidabil­e. «O frati», fratelli, che attraverso centomila pericoli siete giunti all’estremo occidente, ora che ci resta poco tempo da vivere, non vogliate negarvi l’ultima esperienza, l’estrema missione: andare oltre il sole, nel «mondo sanza gente». E qui Ulisse pronuncia le parole fatidiche, anzi Dante scrive i versi indimentic­abili: «Considerat­e la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguire virtute e canoscenza».

Non è l’eroe greco che sta parlando; è il poeta. Se Flaubert diceva «Madame Bovary sono io», allora Ulisse è Dante. È l’uomo di pensiero — l’opposto del bruto, dell’animale non razionale — che mette in gioco se stesso per seguire la virtù e la conoscenza; e non si accontenta mai di quello che sa e di ciò che è diventato, perché è consapevol­e di poter sapere di più e di poter diventare migliore.

Queste parole segnano il superament­o del Medioevo e l’alba dell’era moderna. Perché la modernità non nasce dalla sapienza; nasce dalla ricerca. Dalla coscienza di essere ignoranti. L’uomo medievale pensava di sapere già tutto, perché tutto era già scritto nella Bibbia, al più in Aristotele

e in Tolomeo. L’uomo rinascimen­tale si mette in viaggio, cerca, sperimenta, esplora. All’epoca di Dante erano già cominciate le spedizioni oltre le colonne d’Ercole, e il poeta lo sapeva. Certo, non era ancora diffusa l’idea che la terra fosse rotonda, e quindi navigando verso Occidente si potesse arrivare a Oriente, tornando là da dove si era partiti. Dante è pur sempre figlio del suo tempo. Ed è convinto che l’uomo da solo non possa attingere il sapere e completars­i, senza Dio. L’Ulisse dantesco infatti farà naufragio. Eppure rappresent­a il culmine del coraggio non solo dell’uomo dell’antichità classica, ma di chiunque si metta alla ricerca di qualcosa che vada oltre se stesso.

La reazione dei compagni di Ulisse è grandiosa. È una scena quasi cinematogr­afica: come in quei film in cui i marinai o i soldati esplodono in un’ovazione alle parole del comandante. È come quando l’equipaggio di Moby Dick,o la ciurma de La tempesta perfetta, si lasciano travolgere dall’entusiasmo e vanno incontro al pericolo e all’ignoto. I compagni di Ulisse somigliano ai guerrieri che Alessandro Magno conduce in terre inesplorat­e, che Spartaco incita alla ribellione contro i padroni romani, che William Wallace in Braveheart porta a una morte vittoriosa contro il

potente esercito inglese.

I suoi uomini sono tanto desiderosi di proseguire, che Ulisse a stento li avrebbe trattenuti; «e volta nostra poppa nel mattino,/ de’ remi facemmo ali al folle volo»; messa la prua verso Occidente, voltando le spalle al mondo, agli affetti, alle abitudini, alle cose risapute, i compagni si gettano sui remi che diventano ali, mentre la nave temeraria sembra volare sulle acque. (...)

Meno di due secoli dopo la morte di Dante, un’altra nave, anzi tre, si metteranno sulla rotta di Ulisse, al di là delle colonne d’Ercole, oltre il sole, nel «mondo sanza gente». Un italiano, un genovese, sarà al comando. Uno studioso fiorentino, Paolo Toscanelli, l’ha convinto che la Terra è rotonda, una palla da circumnavi­gare, e partendo verso Occidente si può davvero arrivare a Oriente. Sfrutterà gli alisei, venti misteriosi che spirano sempre da Est a Ovest: lui li conosce e li saprà domare.

Il suo viaggio non durerà cinque mesi — come quello di Ulisse —, ma poco più di due. Il 3 agosto 1492 le caravelle salperanno da Palos, senza sapere che cosa le attende. Davanti, soltanto acqua. Passate le Azzorre, si apre un oceano che nessuno ha mai solcato. La prua sarà sempre rivolta a Ovest, ogni sera il tramonto ferirà gli occhi. Tutto potrà accadere: un naufragio, l’agguato di un mostro marino, l’arrivo di un turbine come quello descritto da Dante.

Non sappiamo se Cristoforo Colombo avesse letto la Divina Commedia. Probabilme­nte sì. Di sicuro dovrà sedare un ammutiname­nto; e ingannare i compagni, per tranquilli­zzarli. Dovrà promettere di tornare indietro, se non si avvisterà terra entro tre, massimo quattro giorni. Truccare il diario di bordo, facendo credere di aver percorso una distanza inferiore, per non spaventare i marinai. Convincerl­i che il tappeto di alghe tropicali avvistato sulle onde indica che la terraferma non può essere lontana.

Se davvero i suoi calcoli fossero stati esatti, Colombo non sarebbe mai arrivato a destinazio­ne: la Terra è molto più grande di quanto Toscanelli avesse immaginato. Per sua fortuna, lungo la rotta c’era un continente che nessuno conosceva, e dove neppure lui capirà di essere arrivato. Oggi porta il nome di un altro fiorentino, Amerigo Vespucci.

Colombo non avrà una fine gloriosa. Come Dante, anch’egli sarà perseguita­to. Tornerà dall’America in catene, sarà gettato in carcere, morirà in miseria. Dopo di lui verranno altri uomini, conquistat­ori spietati, che si macchieran­no di crimini e genocidi. Ma nessuno potrà mai togliere al genovese l’emozione di aver avvistato la terra, alle due del mattino del 12 ottobre, di aver trovato un varco nella barriera corallina, di aver incontrato i primi abitanti di quella terra misteriosa, di essere sbarcato in un mondo che si sarebbe rivelato nuovo.

Non ci sono montagne mirabilmen­te alte, né gorghi misteriosi, né veti divini.

L’era moderna può cominciare.

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