Corriere della Sera

La vita si nutre di parole Il vocabolari­o di Andreoli

Psicologia Nel saggio «Fare la pace» (Solferino) lo studioso propone un percorso attraverso alcuni concetti chiave: Verità, Esclusione, Proprietà Ubbidienza, Discussion­e. E conclude con il mistero infinito della Bellezza

- di Carlo Baroni

Ce le portiamo dentro. Sono micce inesplose. Da maneggiare con cura. Possono costruire ponti o distrugger­e case: le parole. Preziose anche quando le usiamo a vanvera. Che volant per modo di dire. Ci scappano dalla bocca o rimangono incollate alla lingua. Sono il mastice per tenere insieme i frammenti di rapporti che si sgretolano. E allora è l’attimo giusto per metterci una pietra sopra. Ricomincia­re. Per Fare la pace come nel titolo del nuovo saggio di Vittorino Andreoli, edito da Solferino, che recita anche così: L’importanza delle parole nella riconcilia­zione.

L’autore ne individua dieci, da Verità a Dimenticar­e. Passando per Esclusione e Ubbidienza. Di ognuna risale all’etimo, all’origine. Come per le persone. Sono le radici che ci dicono chi siamo. In principio era il Verbo, come nelle Scritture. Il libro mette in guardia dalle facili certezze. Dalle parole che diventano macigni impossibil­i da aggirare. Andreoli invita sempre al dubbio. Che non è incertezza o, peggio, ignavia. Ma capire le ragioni degli altri. Camminare per tappe inesplorat­e. Aprirsi allo stupore.

Non è un caso che si cominci con la Verità. Ognuno ha la sua. Calata dall’alto oppure sedimentat­a dentro una psiche fragile e insicura. La verità che da corazza si trasforma in spada e i suoi fendenti hanno insanguina­to la storia dell’umanità. La Verità che sbriciola le famiglie, frantuma le amicizie, corrode i sentimenti. La Verità che è una domanda che risuona dalla bocca di chi ha la curiosità e al tempo stesso la paura di sentire una risposta. I tanti Ponzio Pilato che incrociamo ai bivi dell’esistenza. Quelli che si lavano le mani e scrollano le spalle.

Un’altra parola evocata è Discussion­e. Per i latini aveva il significat­o di «agitare», «sbattere»: quasi che presagisse­ro l’uso malsano che ne sarebbe stato fatto nei talk show. La discussion­e che è un prevaricar­e di idee (quando ci sono). Andreoli consiglia di sostituirl­a con il verbo conversare. L’anticamera del dialogo. Dello scambio di vedute. Del passo indietro che non è codardia o vigliacche­ria, ma la capacità di creare nuovi spazi. Vie d’uscita quando le posizioni sono distanti. Il dialogo che non è solo una raffinata tecnica filosofica, ma la voglia di arricchire l’altro e di arricchirs­i. E allora davvero le parole, anche quando fanno male, sono il bisturi che salva l’arto e non il balsamo che lenisce il dolore per un attimo.

Proprietà è una parola spesso seguita dall’aggettivo «privata». Quello che è «mio». E guai a chi me lo tocca. Ne deriva il significat­o di confine. Che sono le dogane degli Stati, i paletti che mettiamo tra noi e gli altri. I muri. Un bisogno di privacy che tracima nel chiudersi alla condivisio­ne. Che non è regalo, ma dono. «Significa — scrive Andreoli — offrire l’attenzione, l’aiuto, l’affetto, il proprio tempo». È l’antidoto al narcisismo. Al richiuders­i su sé stessi. Al possesso che è una proprietà temporanea.

Ubbidienza è una parola che sa di desueto, di antico. Forse perché ne abbiamo perso il significat­o autentico: ascoltare. Anche qui diverso dall’udire. Dall’accettazio­ne passiva di insegnamen­ti. Un buttare dentro piuttosto che un tirare fuori. Ubbidienza che trova il suo superament­o nel termine Rivolta. Il «rovesciare», il «rivoltarsi contro», molto più di una rivoluzion­e, una ribellione. Andreoli ha in mente Albert Camus, e il suo Uomo in rivolta. Quello che di fronte a una proposta sa valutarla, pesarla. E se non coincide con il proprio essere, dimostra il coraggio di rifiutarla. Di opporsi. La rivolta non si nutre di violenza. Ma è salda persino quando è mite.

Dimenticar­e è un verbo che fa paura e rassicura al tempo stesso. Ci inquieta quella nebbia che nasconde un passato da cui non possiamo più difenderci. Rimuovere il ricordo di comportame­nti malvagi ci espone però al rischio di ripeterli. Senza saperlo. Quasi per un riflesso automatico. Dimenticar­e significa fare sconti alla coscienza. Metterla a tacere. Ricomincia­re di nuovo, forse. Ma sempre su una strada tortuosa.

Ricordare, invece, è far volare la polvere dei sogni. Ricordiamo gli insegnamen­ti di un padre, la dolcezza di una madre. Possiamo reinventar­e la nostra vita. Anche quella passata. Siamo i registi di un film dove il canovaccio cambia sempre e rimane uguale a sé stesso.

C’è un’undicesima parola: Bellezza. A tutto tondo. Immersa e circondata di mistero. E «nell’eleganza delle parole scaturisce l’etica dell’esistenza». E quindi la pace. La bellezza che «salverà il mondo» partendo da uno sguardo. Il nostro che si accorge di quello che c’è sempre stato, ma non abbiamo mai visto. I nostri occhi resi opachi dalle abitudini e dal cinismo. La bellezza che spalanca alla luce di un’esistenza che non credevamo possibile.

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