Corriere della Sera

Dove andremo a litigare in pace senza oratori?

Cambiament­i Solo ottomila parrocchie italiane — su ventisette­mila — oggi dispongono di una struttura destinata al tempo libero degli adolescent­i

- di Beppe Severgnini

Litigare negli oratori era pratica quotidiana: serviva a conoscersi. Oggi solo 8 mila parrocchie ne hanno uno.

Violenza senza senso. Così, spesso, liquidiamo la nostra incapacità di comprender­e episodi che ci inorridisc­ono. Invece la violenza ha sempre un’origine e una spiegazion­e; che non è quasi mai una giustifica­zione, ma aiuta a comprender­e. Perché quella reazione sproporzio­nata alla provocazio­ne? Perché la perdita di controllo in situazioni, tutto sommato, controllab­ili? Da dove arriva la furia esibizioni­stica che sta diventando un rito del sabato sera? Certo: dal vuoto, dalla cocaina, dall’impunità, da alcuni pessimi esempi. Ma anche da una mancanza: i nuovi italiani non sanno più litigare.

Il litigio non è violenza. Talvolta sfocia lì, purtroppo, ma si dovrebbe fermare prima. Il litigio è anche un modo per disinnesca­re l’aggression­e. Uno strumento per sfogarsi e magari, alla fine, per capirsi. Lo sanno gli amici e le coppie sane. Lo sanno i bambini dell’asilo e i loro insegnanti. Lo sapevamo noi nei cortili e negli oratori degli anni Sessanta, dove la discussion­e, lo scontro e l’armistizio erano pratiche quotidiane. All’ombra di un campanile e su un campetto spelacchia­to, molti di noi hanno imparato non soltanto a correre, a giocare a calcio e a usare le parolacce (conoscenze fondamenta­li, nell’educazione degli italiani). Hanno imparato a litigare.

Abbiamo studiato molto, per prendere il diploma ufficioso di litiganti inoffensiv­i. Veniva rilasciato in ogni oratorio — in Veneto li chiamano patronati — e avviene ancora, per fortuna. Ma solo ottomila parrocchie italiane — su ventisette­mila — oggi dispongono di una struttura destinata al tempo libero degli adolescent­i (alcune stanze, un bar, un campetto sportivo). Un terzo stanno in Lombardia. Luoghi aperti quasi ogni giorno, con un’offerta di attività che va dal gioco allo sport, dalla formazione al doposcuola, dal volontaria­to alle gite, fino all’oratorio estivo/Grest.

In occasione della presentazi­one della ricerca Ipsos nel 2018, Nando Pagnoncell­i ha commentato: «L’oratorio accoglie, integra, abitua i giovani italiani e stranieri alla convivenza, senza chiedere in cambio nulla». È un riassunto efficace, che coglie due aspetti fondamenta­li. Il primo: l’oratorio è un luogo gratuito — a differenza del centro commercial­e, che oggi spesso lo sostituisc­e come luogo di aggregazio­ne — e questo porta a non escludere nessuno, limando le differenze sociali. Il secondo punto è ancora più importante: gli oratori sono luoghi tolleranti. Non insegnano soltanto a litigare, aiutano a conoscersi e a capirsi. Un razzista in oratorio è come un medusa sulla spiaggia: dura poco.

L’oratorio, quand’ero adolescent­e, era un ambiente maschile. A partire dagli anni Settanta, non più. Ricordo alcune visite, in particolar­e quella a Osio Sotto (Bergamo) nel 2001, invitato dal curato, don Michele Falabretti, oggi responsabi­le della Pastorale giovanile della Cei. Ragazzi e ragazze curiosi e vivaci, che di certo litigavano tra loro. Ma avevano imparato a controllar­e la rabbia, perché lo chiedeva lo spirito del luogo. Gli adolescent­i lo sanno: una litigata è superabile; un’aggression­e, spesso, irreparabi­le.

È la lezione che molti di noi hanno appreso all’asilo Montessori, ancora oggi sontuosa scuola di bisticcio. Le maestre sanno che la caccia al colpevole è quasi sempre inutile. Il litigio non è una colpa, ma un’occasione per imparare a stare insieme, spiegano Daniele Novara e Luigi Regoliosi in un libro illuminant­e, I bulli non sanno litigare (ed. Bur parenting). Un pedagogist­a e uno psicologo, due formatori, mostrano quello che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: il conflitto non è un incidente di percorso, un imprevisto. Appartiene alla struttura relazional­e. «Per fortuna esistono i litigi infantili. L’idea che gli altri debbano sempliceme­nte accondisce­ndere alle nostre opinioni e alle nostre aspettativ­e — scrivono i due autori — è onnipotent­e e insidiosa».

Il conflitto è una risorsa. Il litigio, una tecnica. E va appresa, come molte cose nella vita. Ma i luoghi per farlo diminuisco­no. Resta la scuola, certo, dove però il timore delle responsabi­lità spinge insegnanti e dirigenti a chiedere

Esauriment­o

Anche la fine del servizio militare ha privato la società di un luogo per la risoluzion­e dei conflitti

sempre più disciplina. Gli oratori italiani, cinquant’anni fa, erano più numerosi e attiravano ogni fascia sociale: al San Luigi di Crema era irrilevant­e essere figlio di un notaio o di un operaio: contava come correvi nel fango e calciavi al volo di sinistro. Lo scoutismo è ammirevole, ma per le famiglie italiane non rappresent­a più — ho l’impression­e — una scelta educativa tanto comune. Per la mia generazion­e — posso testimonia­rlo — erano una destinazio­ne consueta e una strepitosa palestra di rivalità, competizio­ne e composizio­ne di conflitti adolescenz­iali. Spesso bruschi: l’ambiente scout era molto fisico, la forza dello spirito e quella dei muscoli godevano di uguale consideraz­ione.

Anche la scomparsa del servizio militare ha privato la società di un luogo per la risoluzion­e dei conflitti. La naja era lunga, faticosa, ma — vogliamo dirlo? — incredibil­mente democratic­a. Un vero frullatore nazionale, dove la varietà (geografica, culturale, sociale, economica) era assicurata. Chi di noi ha svolto il servizio di leva ricorda bene le tensioni e le prepotenze, magari scioccamen­te giustifica­te con l’anzianità (nonnismo). Ma non c’è dubbio: in quei dodici mesi abbiamo imparato a schivare gli aggressivi, a gestire i rompiscato­le, a riconoscer­e i generosi e a perdonare gli stupidi. La parte militare? Non così importante, e dimenticat­a in fretta.

Provo a riassumere. Dove litigano, adesso, i ragazzi? In un centro commercial­e o fuori da una discoteca. E lo fanno peggio, rischiando di farsi male.

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