Avati, romanziere esoterico
In un libro Solferino l’autore ambienta nel Nordest degli anni Cinquanta la sua ricerca «al fondo di tutto» Con «L’archivio del Diavolo» il regista torna a raccontare i misteri di Lio Piccolo
Ritorno a Lio Piccolo, il paese di poche case alle estreme propaggini della laguna di Venezia. Sono passati quasi due anni dai fatti raccontati ne Il Signor Diavolo: Carlo, che ha ucciso Emilio, il ragazzo mostruoso, convinto che fosse il Diavolo, è stato condannato a dieci anni. La chiesa è chiusa da quando è morto il parroco. Nella canonica è rimasta una valigia di Furio Momenté, l’inviato del ministero di grazia e giustizia che, prima di tornare a Roma, era arrivato a Lio Piccolo per capire se veramente Satana si era manifestato in quel paese fra terra e acqua. Ma era sparito nel nulla, e nessuno ne sa più niente.
Ora nel nuovo romanzo di Pupi Avati, L’archivio del Diavolo (Solferino), si riparte dalla fine misteriosa di Momenté, il cui corpo viene ritrovato nel sotterraneo della chiesa. Eppure alcuni suoi colleghi del ministero, dove lui lavora come archivista, dicono di averlo visto di nuovo. Com’è possibile? Forse, suggerisce Avati, esistono visioni che crediamo vere e invece non lo sono. Sono le «allucinazioni ipnagogiche», esperienze che si verificano tra la veglia e il sonno, e che spesso sono condivise da varie persone senza che fra loro ci sia alcun contatto. E in una di queste allucinazioni torna l’incubo di essere chiusi al buio in una cripta.
«Non volevo fare un semplice sequel de Il Signor Diavolo» dice Avati. «Mi piaceva l’idea di spingermi oltre, aprendo una serie di piste. E una delle tracce è una ricerca su Gogol che il portiere di notte del ministero sta faticosamente scrivendo. Gogol, dice, era terrorizzato dall’idea di essere sepolto ancora da vivo, cosa che purtroppo gli capitò. Ecco, anche qui torna la paura dell’essere rinchiusi sotto terra. Certo, i fatti di Lio Piccolo restano centrali, e la domanda se Emilio fosse l’incarnazione di Satana resta aperta.
Forse era un’allucinazione, o forse no. Eppure fra la gente del paese molti ci credono ancora».
Ma a questo punto, la visuale si allarga e ci mostra le conseguenze del voto del 1953, che ha messo in ansia i notabili di Venezia, fino ad allora sicuri dell’appoggio Dc. Mancato l’obiettivo del 51 per cento necessario per ottenere il premio di maggioranza (la cosiddetta «Legge truffa») in Veneto la classe dirigente vive giorni inquieti. Quel sistema di favori agli amici, adulteri più o meno allegri, indagini scomode insabbiate rischia di saltare. Nel romanzo la rottura dell’equilibrio avviene in modo clamoroso: al funerale della madre di un magistrato, la sorella di lui parlando davanti al feretro confessa di aspettare un figlio da un uomo sposato, un magistrato, che vorrebbe farla abortire. Fa nome e cognome, ma a pagare sarà il fratello di lei che deve subire una punizione disciplinare (proprio il fratello era il magistrato che aveva svolto le indagini su Lio Piccolo).
Ma a farci tornare a Lio Piccolo tocca a un nuovo personaggio, il giovane sacerdote Stefano Nascetti. «È un prete senza vera vocazione, pieno di desideri sessuali repressi. Studioso, piace ai superiori che gli pronosticano una carriera presso il Patriarca. Ma qualcosa interrompe i suoi progetti». Una donna abbandonata dal marito continua a tornare a confessarsi, invita il sacerdote a casa e minaccia il suicidio se lui non andrà. La donna, Silvana, viene trovata morta in casa, in una messinscena di suicidio poco credibile. La sorella di lei va in questura e denunzia il giovane prete. La denuncia resta ferma in questura, ma don Stefano non vuole rimanere a Venezia e chiede un incarico lontano dalla città. Gli sarà assegnata la parrocchia di Lio Piccolo. Dove, appunto,
Sfidando il lettore, Avati sa giocare bene il ruolo di narratore che non esita a spingersi oltre i livelli consentiti di credibilità
cercando gli arredi per una processione, si riapre la botola e si trova il cadavere di Momenté.
«Seguendo i destini dei personaggi, ho sviluppato un’idea di romanzo libera dall’ipoteca neorealista. Oggi, nei romanzi italiani, c’è troppa realtà e poco romanzo. Scrivendo L’archivio del Diavolo cercavo il possibile anche a costo di sconfinare in fantasie esoteriche. Mi chiedevo dove sarei andato a parare. Forse, mi rispondevo, andavo a scoprire che cosa c’è al fondo di tutto, forse il Male, quello che il ragazzo Carlo chiamava il Diavolo. Consapevole, comunque, di star lavorando a una grande mistificazione. Come, per esempio, usando le note a piè di pagina, mai viste in un romanzo».
A cosa servono quelle note? «A produrre un effetto di realtà. Nel corso delle indagini si fanno i nomi di agenti di polizia, guardie comunali, carabinieri. Per ognuno, nella nota, ho creato un’identità: anni, nucleo familiare, tempo libero». Sono tutti personaggi verosimili. «E io uso queste note per far credere che si tratti di una storia vera. L’effetto gotico del Signor Diavolo stava nel far credere che il diavolo esiste. Qui parlerei di effetto esoterico, mostrando che la realtà può essere un’allucinazione. In fondo, L’archivio del Diavolo è una sfida al lettore».
E Avati sa giocare bene in questo ruolo di narratore impostore, che non esita a spingersi oltre i livelli consentiti di credibilità. Per questo il maggior pregio de L’archivio del Diavolo sta nel chiamare in causa il lettore. E costringerlo a interrogarsi su quanto sta leggendo. I personaggi hanno una consistenza reale? Lio Piccolo esiste davvero? «Sì, esiste. Ci sono poche case, la chiesa, in tutto appena quattrocento abitanti». Ma intanto il romanzo corre verso un finale imprevisto. Che serve come sfogo alla violenza accumulata lungo i racconti intrecciati che ci riportano sempre ai misfatti di Lio Piccolo.