Sessualità fluida e incertezze: gli adolescenti di Guadagnino
«We Are Who We Are» in 8 puntate. «Nei miei film l’elogio della libertà»
L’incertezza della sessualità, la fluidità di genere negli occhi indagatori di due adolescenti americani che vivono con le loro famiglie in una base militare Usa in Veneto. L’età della ricerca di sé, «quando hai solo curiosità, desiderio, capacità di sperimentare», dice Luca Guadagnino, che nella sua prima serie tv (scritta con Francesca Manieri e Paolo Giordano) abbraccia un racconto di formazione. «Una sorta di commedia umana che racconta come un gruppo di espatriati vive le proprie idiosincrasie, desideri e nevrosi», dice il regista di We Are Who We Are, otto puntate di Sky e Hbo, in onda dal 9 su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv.
Storia corale, il protagonista è Fraser, interpretato da Jack Dylan Grazer che indossa la sua giovane anima con la rabbia di quell’età, vive con la madre, il nuovo capo della base, Chloë Sevigny, e sua moglie Alice Braga, infermiera in divisa. «La base militare è l’involucro di una identità americana che prova a diventare universale», dice Guadagnino, che ha tatuato la sua estetica inconfondibile frutto delle cinque terre in cui è cresciuto, Palermo, Addis Abeba, Roma, Los Angeles e infine il suo oscillare tra Milano e Crema. Che cosa ha scoperto di un mondo fondato sulla gerarchia? «Che è un mondo laico, non ispirato a una forma di religiosità militaristica. Certo la disciplina, le regole strette...Ma i militari che ho conosciuto mi hanno aiutato a capire tante sfumature. E’ molto più laica una base militare di Hollywood». E qual è la religiosità di Hollywood? «Che tutto debba corrispondere al controllo assoluto del prodotto, secondo un pregiudizio contraddetto dal modo in cui lo spettatore lo riceve. Ma Hollywood crea prototipi e questo è positivo».
La libertà di amare come si vuole è uno dei temi delle sue narrazioni: «Se libertà significa la nostra capacità di farci attraversare, nell’alterità, da un altro essere umano, è una poetica che mi interessa». Jack ha i capelli ossigenati e i primi baffetti, «quando ho girato aveva 15 anni, appartiene a una delle grandi famiglie aristocratiche di Hollywood (è nipote del socio di Ron Howard e il suo padrino è Anthony Hopkins) è un prisma affascinante, un saggio centenario nel corpo di un bambino, ma anche una mina vagante pronta a esplodere in pulsioni e sensi di vuoto. In lui si ritrovano il turbamento del proprio cambiamento fisico, l’andare verso un futuro che non si conosce. E’ come Leopardi: lo sprofondare nell’Infinito è il girovagare nella laguna di Chioggia, l’incognita di comprendere il reale e l’immaginarsi il futuro da una ubriacatura». E poi c’è lei, Jordan Kristine Seamon,«una sfinge enigmatica».
Il desiderio è avvolto in un’atmosfera sospesa. «Racconto anche la noia o i momenti di vuoto che informano le nostre vite, e dunque la sospensione (che il cinema, basato sull’azione non racconta), c’è. Aderisco ai comportamenti, come faceva il regista francese Maurice Pialat il cui spirito aleggia in tutta la serie. La base militare del film è intitolata a un immaginario generale italiano, Maurizio Pialati».Quando le dicono che non gira film italiani? «Lo rifiuto. I miei film sono anche finanziati da denaro italiano. Credo, parafrasando Truman Capote, che il cinema non conoscendo geografie non ha confini e le cinematografie nazionali che aderiscono a stilemi calcificati da abitudini, regole e forme sono le meno interessanti».
«Racconto anche la noia o i momenti di vuoto che dominano le nostre vite»