Il governo valuta il ritorno alla linea dura I dubbi del premier
IL RETROSCENA IL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Le parole scandite in Sardegna dal ministro della Salute, Roberto Speranza, danno il senso del cambio di fase: «Stiamo lavorando giorno e notte perché si eviti un lockdown nazionale». Per la prima volta dopo mesi un esponente autorevole del governo rivela quel che nessuno ufficialmente dice. E cioè che a porte chiuse, nelle riunioni riservate e lontano da telecamere e microfoni, l’esecutivo di Giuseppe Conte non esclude che il Paese possa ripiombare nel dramma della primavera. L’Italia che conta i morti, spegne le luci, ferma i motori, sbarra i portoni delle scuole e si chiude in casa. «Torna il momento in cui dovremo dimostrare di nuovo di essere un grande Paese», aveva detto due giorni fa il ministro, nel suo discorso al Parlamento.
È un brutto sogno, un incubo che non deve avverarsi. Ma il virus corre veloce e nessuno, come ha detto Speranza, «ha certezza assoluta di quello che avverrà» nelle prossime settimane. «Molto dipenderà dai comportamenti delle persone». È quel senso di responsabilità al quale si è appellato Conte, chiedendo agli italiani di fare qualche sacrificio in più altrimenti, inesorabilmente, «andremo in difficoltà». In questo clima da passato recente che ritorna il premier ha dovuto mediare in Consiglio dei ministri tra l’ala intransigente, che spinge per irrigidire le norme anti-Covid e quella più morbida, che resiste all’imperativo di mettere la salute davanti all’economia.
Conte si muove con prudenza. «Se con gli esperti si valuteranno altre misure le adotteremo», ha risposto ai giornalisti. Ma l’aver scritto in un decreto legge che la mascherina va portata sempre, teoricamente anche nei luoghi privati dove ci sono persone non conviventi, è per lui già una grande concessione alla «linea dura» di Speranza e Franceschini. Il capo delegazione del Pd è tra coloro che — nel corso di un dibattito piuttosto serrato al tavolo di Palazzo Chigi sull’opportunità di regolamentare la vita privata delle persone — hanno insistito per chiedere che l’obbligo di coprire naso e bocca fosse esteso (dai luoghi pubblici) ad ogni occasione possibile, fino alla soglia delle case e oltre.
«La gente non si contagia a scuola, sul tram, o in ufficio, il 70 per cento dei contagi avviene in famiglia e con gli amici», è stato il ragionamento di Dario Franceschini, mentre la capo delegazione di Italia viva, Teresa Bellanova, difendeva la tesi opposta: «Come facciamo a obbligare le persone non conviventi a presentarsi a una festa in casa con la mascherina? Può essere una raccomandazione, ma non un dettame di legge». La stessa dinamica è scattata sulle Regioni, con Speranza, Franceschini e Boccia contrari a concedere ai «governatori» la possibilità di allentare le misure in questa nuova fase dell’emergenza.
Ma le decisioni più dure sono ancora tutte da prendere. Entro il 15 ottobre Conte deve firmare il nuovo Dpcm e nei partiti c’è chi spinge per inasprire le norme anti-contagio. Però il premier non sente nel Paese quella paura che si respirava forte a marzo e che lo convinse a fare dell’Italia la prima zona rossa d’Europa e non vede possibile un altro lockdown nazionale. «La struttura produttiva del Paese non reggerebbe a un secondo blocco», ha ammonito Bellanova. Eppure il tema di possibili «chiusure selettive di alcuni settori», nel caso di un peggioramento che mandi in sofferenza le terapie intensive, esiste.
Il sistema scolastico regge, la percentuale dei casi non è tale da far temere una chiusura generale. Ma l’inverno si avvicina, un raffreddore basta a mandare nel panico un’intera classe e la ministra Lucia Azzolina ha dovuto alzare la voce per ottenere una «corsia preferenziale» per i test rapidi nelle scuole.