Tutta l’armonia di Verdi in un’«Aida» di emozioni
Prima di «Aida» alla Scala. Le regole sono le solite di questi tempi. Orchestra distanziata e coro ancor più distanziato sul palcoscenico, sala occupata per un terzo della capienza, niente scenografie, cantanti in abito da sera che accennano un’ipotesi di recitazione, la «regia» si limita a qualche pennellata di luce sullo sfondo. Eppure è una bella, bella serata. E corre un brivido d’emozione quando, le trombe attaccando la marcia trionfale, s’illumina a giorno lo stemma scaligero. Per quanto ai limiti del kitsch, il «gesto» sottolinea la complicità del teatro e del suo pubblico nel voler celebrare, nonostante tutto, il solito, magico rito.
E poi, a dire il vero, un’opera come «Aida» rivela meglio i suoi tesori musicali quando eseguita in forma di concerto: l’armonia cromatica, la lussureggiante strumentazione, il sinuoso melodismo. Riccardo Chailly, tante «Aida» sul groppone, non perde dunque l’occasione di mettere a fuoco ogni dettaglio con l’orchestra, al limite anche suggerendo un passo un poco più comodo di com’era in forma teatrale. E il bello è che non c’è nulla di dimostrativo, solo il piacere di delibare nota per nota la partitura probabilmente la più rifinita di Verdi.
A proposito di partitura: nell’occasione si esegue per la prima volta un principio di terzo atto diverso da quello noto, versione primitiva di un segmento poi modificato sia per attenuarne il sapore ecclesiastico (è un coro «alla Palestrina» che poi ricomparirà nel «Requiem») sia per concedere qualche minuto di assolo in più alla prima Aida della storia, quella Teresa Stolz verso la quale Verdi iniziava a nutrire i sentimenti più calorosi.
Queste incursioni filologiche di Chailly sono dettate da una sana, anzi doverosa, curiosità. Ma cosa meglio dello studio delle varianti permette al pubblico di toccare con mano la personalità artistica di un compositore? Ben venga la conoscenza, poi ciascuno si formerà le sue opinioni.
La parte vocale dello spettacolo, che si replica fino al 19, è invece un po’ luci e ombre. Il meraviglioso coro di Bruno Casoni è penalizzato non tanto dal minor organico (78 maestri anziché poco più di 100) ma dalla disposizione ai lati del palcoscenico, in fondo.
Chi ricordi quale superbo muro di suono il coro scaligero producesse, però, se la può prendere solo con le regole Covid.
Il cast è di ottimo livello ma potrebbe esserlo ancora di più. Saioa Hernández, peraltro splendida, seducente Aida, sfodera un vibrato fin troppo ampio. L’Amneris di Anita Rachvelishvili ha potenti toni gravi ma poiché li produce in ogni frase compromette dinamiche e qualità del fraseggio. Diversamente da molti altri tenori, Francesco Meli non ha bisogno di spingere per sostenere la sua parte, gli viene naturale. Il suo Radamès potrebbe avere dunque una personalità più caratterizzata, mentre il basso Amartuvshin Enkhbat (Amonasro) fatica un po’ sul piano della dizione. Tantissimi applausi.