«Vi racconto Jannik È già vicino a Nadal e vincerà uno Slam»
Piatti: «Deve crescere nel servizio e nella gestione della partita»
Non è vero che solo gli opposti si attraggono, lo fanno anche gli uguali. «La prima volta lo vidi a un torneo giovanile di Milano. Un bambino tutto rosso che veniva a rete, comandava il punto, lo perdeva e ripartiva con la stessa determinazione, come nulla fosse. Uno spettacolo. Non sapevo neanche come si chiamasse. Perse facile contro un ragazzo più grande di lui. Quando un paio d’anni dopo me lo portarono a Bordighera, mi ricordai di lui, e mi chiesi come si poteva fare per adottarlo, tennisticamente, si intende…».
A Riccardo Piatti è bastato essere se stesso. Una creatura mono pensiero, così si definisce. Uno che ha in testa una sola cosa, il tennis. Da vivere, pensare e respirare. Nient’altro, al netto degli affetti familiari. Come il suo protetto Jannik Sinner, che dopo aver tenuto testa per due set a Sua Maestà Rafael Nadal, ha smesso di essere un segreto custodito neppure troppo bene, per diventare il prescelto, o qualcosa del genere. Non solo del tennis italiano. «Quella partita ci insegna che ormai è vicino come qualità, ma ancora lontano come conduzione della partita nei momenti importanti. Una cosa normale per un ragazzo che ha giocato pochissimi match a questo livello».
Un noto giornalista americano ha detto che per noi Sinner starà al tennis come Alberto Tomba allo sci. L’uomo che plasmerà la più grande speranza dello sport italiano recente ha gli strumenti per gestire tanto ben di Dio. Nato a Rovenna sul lago di Como, figlio di un imprenditore tessile, buon secondo categoria, ben presto lasciò perdere gli studi in Giurisprudenza. Alla fine degli anni 80 creò il primo team privato d’Italia con un manipolo di giovani scartati dalla Federazione. Caratti e Furlan ci diedero belle soddisfazioni. Si prese cura di un ragazzo croato in fuga dalla guerra: Ljubicic arrivò al n.3
Sinner Adesso ho capito che posso farcela, da qui in avanti avrò sempre le mie opportunità
del mondo. Allenò per qualche mese un adolescente di 17 anni, che si chiamava Novak Djokovic e lo reclamava a tempo pieno. Ma a quel tempo Riccardo stava seguendo Bolelli e non gli sembrò giusto lasciarlo. Con lui, Raonic è arrivato in finale a Wimbledon. Ogni tanto qualche auto di lusso ferma davanti alla sua accademia nel ponente ligure. Ne scendono nomi illustri come Djokovic, Coric, Goffin, Sharapova, che vengono dal meccanico dei campioni per farsi dare una sistemata a un colpo che non sentono bene.
La prima regola di un grande coach è quella di non sopravvalutare il suo contributo. «Jannik deve spendere meno energie nervose, pensare poco e giocare. Deve migliorare e tanto il servizio, e lavorare sui cambi di ritmo all’interno dello scambio. Ci arriverà. Il mio compito è aiutarlo a tirare fuori il suo massimo. Io non devo dargli niente, devo solo fargli capire quello che lui ha già dentro di sé». In pubblico, Sinner chiama Piatti «il mio maestro», con un riflesso condizionato da bambino, che induce tenerezza. «Invece la verità è che mi aiuta tanto — interviene il ragazzo altoatesino —. Mi fa vedere cose che a me sfuggono. Mi conosce, sa che sono un agonista, a me piace vincere. La sua esperienza mi aiuta a fare meno errori. E dopo Nadal, ho capito che posso farcela, e che da qui in avanti avrò sempre le mie opportunità».
Tra i due c’è una unione di intenti che non è solo tecnica. Piatti, che oggi ha 62 anni, scelse il tennis come atto di fede. Era appagato della stima generale e felice nel suo ben frequentato rifugio ligure, quando gli è caduto dal cielo questo bambino rosso, che ha la sua stessa pulsione ideale. Alla domanda se contano di più i soldi o il piacere dell’insegnamento, risponde con sincerità. «Non ho mai vinto uno Slam, e ci terrei. Quindi, per arrivarci devo stare in campo, con Jannik». Ci proveranno insieme. E noi lo sappiamo bene, che possono riuscirci.