Corriere della Sera

IL VOTO, UN GIOCO D’AZZARDO SUL CORPO DI DONALD TRUMP

- di Antonio Scurati

Scelta Gli elettori si emozionera­nno per il risanament­o del leader? Oppure lo ripudieran­no perché ha contribuit­o con condotte irresponsa­bili alla diffusione del morbo?

Peggio ancora: a risultare decisivo non sarà il giudizio del corpo elettorale su idee, politiche o programmi del Presidente in carica ma un pronunciam­ento sul corpo del Capo. Un colpo di tosse deciderà le sorti degli Stati Uniti d’America e del mondo.

A questo eccitante, irrazional­e, pericoloso gioco d’azzardo si riduce la vita democratic­a quando a dominare la scena è quella tipologia di leader che, per convenzion­e, definiamo populista. Non deve stupire che, nel momento fatidico, l’esito di questo gioco si decida al livello del corpo perché l’essenza di questa leadership risiede in un processo d’incarnazio­ne fin da principio. Il leader populista non è nelle sue idee, nelle sue analisi, nei suoi ragionamen­ti programmat­ici. Il leader populista si identifica pienamente con il suo corpo, senza resti, senza dubbi; egli è innanzitut­to un corpo e si afferma riducendos­i al proprio corpo.

Ogniqualvo­lta i raffinati intellettu­ali dell’analisi politologi­ca, o i fautori di una politica come processo razionale, liquidando con sufficienz­a Trump sottolinea­ndo gli aspetti volgari, tracotanti, ridicoli della sua gestualità, del suo linguaggio o del suo aspetto fisico, peccano di presunzion­e e difettano di quell’intelligen­za che negano al loro bersaglio critico. Definire Trump un «clown», come ha fatto nel primo confronto pubblico Biden, è la manifestaz­ione più plateale di non intelligen­za (o di stupidità, scegliete voi). Ciò che questo insulto manca di comprender­e è che leader come Trump trovano nella clownerie la propria forza, non la propria debolezza, perché comunicano di norma con il corpo elettorale attraverso le vibrazioni pre-riflessive del corpo, con le sensazioni veicolate dai media e non attraverso l’appello al ragionamen­to, all’analisi razionale, all’accensione ideale. Non tutti hanno una laurea in scienze politiche ma tutti hanno un corpo. Questa dozzinale ma basilare consideraz­ione fornisce il vantaggio tattico che il populista non cessa di sfruttare.

D’altro canto, riconoscer­e questa supremazia del corporale sull’intellettu­ale non significa accettarla: non vi è dubbio, infatti, che nel corso di questo corpo a corpo la democrazia si degradi, a lungo andare si snaturi e rischi persino di soccombere.

Il primo a mettere il corpo al centro della scena politica fu Benito Mussolini. Una precoce intuizione di ciò che sarebbe divenuta la politica nell’era delle masse spinse il duce del Fascismo a operare una rivoluzion­e nel linguaggio della politica disdegnand­o l’importanza delle idee, dei programmi e dei ragionamen­ti per privilegia­re una comunicazi­one corporale, sensaziona­le, fusionale con il proprio pubblico. Sedurre gli affini e violentare gli avversari. Questo il suo programma di massima. Fino al culmine rappresent­ato dai memorabili filmati propagandi­stici nei quali il Capo si denuda in pubblico durante il rito della trebbiatur­a, divenendo al tempo stesso corpo etereo (simulacro cinematogr­afico) e corpo fisico. Siamo, allora, al punto in cui ogni dialettica democratic­a è soppressa: il leader, ridotto al suo corpo, può soltanto essere venerato o massacrato (di solito in quest’ordine).

Non fu un caso se Mussolini, dopo aver rischiato il rigetto degli italiani nell’anno dell’atroce delitto Matteotti, consolidò il proprio potere nei due anni successivi allorché il suo corpo fu esposto, nel giro di pochi mesi, a ben quattro attentati. Scampando per una questione di centimetri alla distruzion­e fisica, Mussolini assurse, ancora prima che il Papa lo investisse di questo titolo, a «uomo della Provvidenz­a». Già nel settembre del 1926, dopo il terzo attentato, l’agenzia Reuters scriveva: «L’onorevole Mussolini sta ora assurgendo alla fama leggendari­a di uomo che è inutile aggredire perché evidenteme­nte Protetto dalla Provvidenz­a». Al tempo stesso, la malattia che minava dall’interno il suo corpo «glorioso», una grave crisi di ulcera duodenale, veniva tenuta nascosta. Il corpo del leader non è, infatti, come pensano i suoi ammiratori, il luogo di manifestaz­ione di una verità ultima, fisica, tangibile che trionfa su tutti gli inganni, le menzogne, gli ideologism­i ma, al contrario, la scena di una recita senza fine che richiede all’uomo politico soltanto di interpreta­re se stesso, il proprio ruolo, la propria parte in commedia, senza alcun riguardo per la verità, o per la realtà.

Le accuse di fascismo gridate dai movimenti radicali statuniten­si e dalle ultime, caricatura­li versioni dell’intellettu­ale antifascis­ta militante nostrano, mancano il bersaglio non per eccesso ma per difetto. Donald Trump non è portatore di una cultura politica fascista, non discende dal Mussolini fondatore del fascismo. Ne è, però, epigono, consapevol­e o inconsapev­ole, nella misura in cui Mussolini fu l’archetipo della leadership populista, il primo esemplare di quel tipo di leader che non guida le masse precedendo­le verso obiettivi e ideali alti e lontani che la massa fatica a scorgere ma seguendole, giusto un passo indietro, fiutandone gli umori — quasi sempre malumori — e riempiendo­si di essi come un mantice, per poi soffiare su paure, sconforti, risentimen­ti, rancori. Una tipologia di leadership che dilaga da anni, a destra come a sinistra, a latitudini prossime o remote ai fenomeni politici propriamen­te fascisti.

Gli elettori statuniten­si si abbandoner­anno al trasporto emozionale per il corpo risanato di un leader che incarna il mito del condottier­o inscalfibi­le? Oppure ripudieran­no, a mente lucida, il Presidente che, con le sue condotte irresponsa­bili, ha contribuit­o alla diffusione del morbo nel corpo infetto della Nazione? Da questa scelta dipende il futuro della democrazia, non solo americana.

Paragoni Donald appare come un epigono di Mussolini ma nel senso che il Duce fu l’archetipo della leadership populista

Prospettiv­a Dal risultato di novembre dipenderà il futuro della democrazia, non solo americana

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