Corriere della Sera

CAROLINA MORACE

- rscorranes­e@corriere.it

intelligen­te, colta, preparata. Non gli scarti di un mondo, quello maschile, che non li vuole».

Investimen­ti, visioni, talento.

«Basta osservare cosa succede nelle leghe femminili che contano. Il modello tedesco garantisce alle società che non hanno alle spalle la forza del maschile 700 mila euro; a quelle profession­istiche, 300 mila. Crediamoci e anche quello femminile diventerà un grande spettacolo. Dobbiamo aspirare a un bel gioco, anche nel calcio giocato da donne».

Lei ha la fama di «sergente di ferro». È ancora così?

«Ma no, diciamo che sono sempre stata una donna molto ferma nelle mie convinzion­i. Quando divenni la prima donna ad allenare una squadra profession­istica maschile, la Viterbese di Luciano Gaucci, tutti cominciaro­no a osservarmi e al tempo stesso tutti si aspettavan­o chissà quale bizzarria da me. Oltre al fatto che si sentivano in dovere, o in diritto, di darmi consigli. Ma devo dire che allora mi trattarono proprio come un collega maschio».

Le chiedevano se entrava negli spogliatoi.

«Avrei voluto rispondere: “No, mando dei pizzini” o “un piccione viaggiator­e”».

Rigore, ironia, coraggio. Forse Morace, più che essere «fuori dagli schemi» ha uno schema tutto suo, che persegue con forza.

«Mi piace appoggiare chi è intelligen­te e capace, senza ipocrisie. Di certo non sono una donna che supporta un’altra donna solo per appartenen­za allo stesso sesso. Allo stesso modo appoggio gli uomini: la persona viene prima del suo sesso».

Lei ha allenato la nazionale femminile italiana, la canadese e quella di Trinidad, oltre al Milan, per citare qualche incarico.

«Ho una certa esperienza e sempre ho cercato di comportarm­i così come i miei schemi mi hanno suggerito».

Però del calcio femminile si è cominciato a parlare da poco.

«Esisteva ma non c’era. Centinaia di donne giocavano ma erano circondate da pregiudizi, considerat­e come maschi mancati. L’unico modo per motivare le bambine, dar loro l’ambizione di diventare campioness­e, vuol dire restituire al calcio femminile la giusta dignità e smettere di considerar­lo un parente povero. Se le bambine saranno motivate potrà aumentare il numero delle praticanti e diventerà, forse, uno sport di massa».

Carolina, ora lei e Nicola volete un figlio.

«Sì, lo desideriam­o. Lei ha già una figlia ed è una bravissima madre, mi commuovo nel vederla parlare così intensamen­te con la sua bambina, nel notare il tempo che le dedica e il modo con cui sta seguendo la sua crescita. Non sarà facile per noi, specie in questo periodo in cui spostarsi per il mondo è complicato a causa della pandemia. So già che dovremo avere pazienza, sia per questo che per tutte le difficoltà che incontrere­mo».

Però con lei si sente di poterlo fare.

«Nicola mi ha liberato anche di questo timore. In realtà, quando avevo trentanove anni — e lo racconto nel libro — ho provato a diventare madre. Ero una donna single e determinat­a ma i figli non arrivarono e così smisi di accanirmi. Dovevo solo aspettare. E con mia moglie oggi mi sento nel momento giusto».

Lei parla di Nicola con un amore che sembra nato ieri, anche se vi conoscete da anni.

«Lei è bellissima, è intraprend­ente, è dinamica. Pensi che ha cambiato volto alla mia casa, ma intendo dire sul serio, mettendoci le mani: pavimenti, arredo. È pragmatica, diretta, schietta. Così facendo mi ha aiutata a far luce su di me, a capire chi sono».

E oggi come si definirebb­e (in amore) Carolina Morace?

«Sono una donna che ama una donna». Sempliceme­nte.

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