DMITRIEV E I LIMITI DELLA NOSTRA POLITICA
Èpassata sostanzialmente inosservata nel nostro Paese l’ultima pesante condanna a tredici anni di carcere subita lo scorso 29 settembre da Yuri Dmitriev, storico russo e attivista dell’associazione Memorial. La sentenza ha sollevato le proteste degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, convinti che dietro la pretestuosa accusa di pedofilia rivolta al condannato si celi la volontà di colpire il suo lavoro in difesa della memoria delle vittime dello stalinismo. Nel 1997 Dmitriev fu tra coloro che scoprirono a Sandarmockh, nelle foreste della Carelia al confine con la Finlandia, oltre duecento fosse comuni nelle quali erano stati gettati i corpi di migliaia di persone appena giustiziate con un colpo alla nuca. Provenivano dalle isole Solovki, cioè dal primo campo per prigionieri politici fondato nel 1923 ai tempi di Lenin; nel 1937 si era deciso di chiudere il campo e di sopprimere tutti coloro che vi erano reclusi.
Al momento in cui avvenne la scoperta delle fosse comuni le autorità russe sembravano appoggiare questo tipo di ricerche e anche condividere lo spirito che le sosteneva: nell’ottobre 1997, sessantesimo anniversario della loro uccisione, alle vittime di Sandarmockh venne dedicata una cerimonia e poi un monumento, destinato però a restare il primo e l’ultimo del genere. Con l’arrivo al governo di Vladimir Putin la situazione doveva infatti mutare. Sempre più il passato sovietico (stalinismo compreso) veniva giudicato in modo sostanzialmente positivo in quanto rappresentava il periodo nel quale la Russia si era affermata come grande potenza mondiale. Questa rivendicata continuità tra la Russia di oggi e l’esperienza sovietica è tanto più forte in quanto incontra il gradimento di ampi settori dell’opinione pubblica da tempo interessata da un fenomeno di — come è stato chiamato — soviet nostalgia. La battaglia in difesa della memoria delle vittime del comunismo è dunque diventata difficile (l’associazione Memorial è stata considerata un «agente straniero») e viene direttamente combattuta da una storia ufficiale che cerca di offuscare la realtà oppressiva e criminale del regime comunista; ma diventa anche pericoloso voler documentare le uccisioni di massa avvenute in epoca staliniana.
La vicenda di Dmitriev si inserisce e si spiega in questo quadro. Arrestato nel dicembre 2016, veniva inizialmente prosciolto nel 2018, ma l’anno seguente un nuovo processo lo vedeva condannato a tre anni e mezzo di reclusione. Questo avrebbe voluto dire che, dato il periodo già trascorso in prigione, sarebbe uscito dal carcere il prossimo novembre. La nuova condanna pronunciata a fine settembre — un «fulmine a ciel sereno» l’ha definita Le Monde — viene dunque a impedire il ritorno in libertà di uno storico particolarmente impegnato nella difesa della memoria delle vittime del Gulag.
L’assenza in Italia di reazioni ufficiali al caso Dmitriev segnala un diffuso limite del nostro ceto politico sia — per quanto possa sembrare incredibile a trent’anni circa dalla fine dell’Urss — nel giudizio storico da dare del comunismo sovietico sia nell’atteggiamento da tenere verso la Russia di Putin. Sul primo versante il limite riguarda soprattutto la sinistra. Ricordo ad esempio che, quando un anno fa il Parlamento europeo approvò una risoluzione di condanna tanto del fascismo e del nazismo quanto dei regimi comunisti, l’Anpi protestò duramente ricordando come i sovietici fossero stati i «liberatori» dell’Europa (affermazione verissima e perfino ovvia, che dimenticava però come al contempo, all’interno dell’Urss e nei confronti dei regimi dell’Est, il potere sovietico avesse svolto anche un ruolo di oppressore e spesso di carnefice). Sul secondo versante, quello della posizione assunta nei confronti della «democratura» putiniana, si distinguono invece — in una sotterranea alleanza gialloverde — sia i Cinquestelle che la Lega. Pochi giorni fa, infatti, un documento del Parlamento europeo che chiedeva un’indagine internazionale sull’avvelenamento di Alexei Navalny ha ricevuto il voto contrario della Lega, mentre i rappresentanti del M5S si sono astenuti (insieme a quelli di FdI). Non stupisce dunque che, per una ragione o per l’altra, la sorte di chi come Yuri Dmitriev combatte per salvare le tracce delle vittime del comunismo interessi poco o nulla alla politica italiana, che pure non tralascia occasione per richiamarci (un po’ ipocritamente, forse) al dovere della memoria.
L’indignazione di Usa e Unione Europea, in Italia nessuna reazione ufficiale