Corriere della Sera

LE VERITÀ PARZIALI SUL COVID

La seconda ondata sta mutando la nostra psicologia Le verità parziali portano al negazionis­mo strisciant­e

- di Paolo Giordano

«Dovrebbero smettere tutti di parlare di questa malattia», mi ha detto un tassista di Milano alcuni giorni fa. Mi raccontava degli alberghi del centro ancora spopolati, della difficoltà di chi opera in un settore come il suo. Ho obiettato che il virus non sarebbe scomparso anche se avessimo smesso di parlarne, e lui ha ribattuto sicuro: «Ormai si è capito che non è davvero pericoloso. Lo è al massimo per qualche anziano già malato». Siamo inclini a pensare che là fuori esistano i negazionis­ti, persone irrazional­i e fanatiche, mosse da rancori profondi, e che qui esistiamo noi, ben informati e prudenti. Ma io dubito che il tassista con cui ho discusso fosse un negazionis­ta. Era una persona preoccupat­a, esasperata e un po’ confusa. Quello che chiamiamo «negazionis­mo» non è una condizione univoca, semmai un continuum di atteggiame­nti e mezze idee, uno spettro di tonalità nel quale ci collochiam­o tutti. Dopo mesi di vita a singhiozzo, abbiamo maturato ognuno la propria resistenza personale all’ipotesi del contagio. Per alcuni si traduce nella convinzion­e che il Covid-19 sia una minaccia solo per una fascia ristretta della popolazion­e; per altri si tratta di interpreta­re i numeri con maggiore obiettivit­à e accorgersi che il rischio non è alto quanto vogliono farci credere (è quel che diciamo ogni volta che ci sentiamo di puntualizz­are che le terapie intensive sono ancora «mezze vuote»); per altri ancora è semplice stanchezza.

Le verità parziali, gonfiate dal desiderio di fare le cose della vita di prima come le facevamo prima, diventano facilmente scetticism­o e sottovalut­azione: negazionis­mo, se proprio vogliamo chiamarlo così, ma di un tipo più «debole», strisciant­e. Forse, il segreto delle seconde ondate è proprio questo: non la stagione fredda e nemmeno una mutazione del virus, ma una mutazione della nostra psicologia.

D’altra parte, se a febbraio conoscevam­o a malapena il significat­o di espression­i come «test molecolare», «lockdown» e «superdiffu­sore», oggi siamo un po’ tutti epidemiolo­gi. Basta scorrere certi post, tweet e articoli molto commentati in rete per accorgerse­ne. È allora il momento di aggiungere al nostro vocabolari­o minimo pandemico un nuovo lemma: il «tipping point».

Il tipping point, o «punto di non ritorno», è la soglia che separa il regime di linearità dell’epidemia da quello di non-linearità. Se prima della soglia il contagio evolve in maniera graduale e abbastanza ordinata, come succedeva quest’estate, oltrepassa­to il tipping point la situazione si aggrava a dismisura e molto rapidament­e. In una parola: esplode. Il tipping point è il momento a partire dal quale le cose precipitan­o. Nello specifico attuale potrebbe manifestar­si in modi diversi: il monitoragg­io sotto stress che inizia a perdere troppe linee di trasmissio­ne, gli ospedali che non riescono a far fronte al flusso dei ricoveri, i tamponi che diventano troppo lenti rispetto alle richieste, i medici di famiglia sovraccari­chi che non rispondono più agli assistiti, oppure la somma dei nuovi positivi che d’un tratto si trasforma in un numero ingestibil­e di malati. Ci sono una miriade di soglie in questa epidemia e ognuna è come un argine. Finché tutti reggono, le cose vanno «abbastanza bene», ma se l’acqua rompe in un tratto qualsiasi il resto viene allagato in un istante.

Il problema principale nel rapportars­i con una dinamica a rischio di rottura della linearità è il fatto che nessuno sa in anticipo dove si trovi il tipping point, a quanti focolai, a quante ospedalizz­azioni, a quanti nuovi contagi giornalier­i. Nemmeno il monitoragg­io più attento è in grado di prevederlo. Il punto di non ritorno è riconoscib­ile solo una volta che è stato superato, ovvero quando è troppo tardi. A febbraio lo abbiamo attraversa­to senza nemmeno accorgerce­ne, ben prima di renderci conto della presenza del virus fra di noi. Sappiamo cosa è stato necessario, dopo, per frenare la caduta.

Adesso il tipping point ci sta di fronte, molto vicino oppure un po’ più distante, nessuno è in grado di dirlo con certezza. Chi guarda al rapporto fra nuovi positivi e tamponi effettuati sente di averne un’idea, ma si tratta di un’indicazion­e sufficient­emente vaga. Chi insiste nel confronto con i numeri di marzo e aprile, come se ci stessimo muovendo all’indietro nel tempo, fa paragoni inappropri­ati. E chi dice «sì, ci sono i nuovi contagi, ma i ricoverati sono ancora pochi» sbaglia nella direzione opposta. Ciò che conta sapere è che il punto di non ritorno non si trova al 100% di occupazion­e dei posti in ospedale, né all’80% né, probabilme­nte, al 50%. Un ospedale che abbia la metà dei suoi letti occupati da malati Covid è un ospedale che sta già operando in sofferenza, è un ospedale a cui manca organico, che si trova costretto a curare peggio, a trascurare altri malati e a rimandare interventi necessari. La nostra sanità non è strutturat­a per funzionare in sovraccari­co, è stata pensata per lavorare in un regime di normalità, molto lontano dalle soglie che ora vogliamo schivare. Il tipping point è più vicino di quanto il nostro istinto ci porta a supporre.

Il governo decide quindi di varare una serie di misure restrittiv­e, sebbene, ancora una volta, in ritardo (ventiquatt­ro ore in più di indugi a ottobre equivalgon­o a parecchi giorni persi un mese fa, quando la ripresa era già evidente, per i soliti effetti non lineari). Quanto alle norme stesse, che singolarme­nte hanno un loro senso, nel complesso sembrano ancora ispirate al paradigma della prima ondata («sta per esplodere, blocchiamo il più possibile dappertutt­o»), un paradigma che speravamo di aver superato. Si tratta, infatti, di misure indiscrimi­nate rispetto al territorio, che rischiano di dimostrars­i insufficie­nti laddove servono davvero ed eccessive altrove.

Questa epidemia la si fronteggia innanzitut­to con la percezione che i cittadini ne hanno. In questo momento avremmo bisogno di sentire la struttura territoria­le, quella immediatam­ente circostant­e, solida e funzionale, non così fragile da richiedere un’altra azione muscolare dall’alto. Se il procedere delle regioni in ordine sparso era deprecabil­e ad aprile, oggi sarebbe un segno di affidabili­tà.

I danni che questa distinzion­e mancata può comportare sono perfino più ampi della scarsa efficacia: si rischia di rafforzare ulteriorme­nte gli atteggiame­nti di resistenza psicologic­a già presenti in tutti noi, di spingerci ancora di più verso le innumerevo­li forme di negazionis­mo debole, rendendoci un po’ più scettici, un po’ più esasperati, un po’ meno collaborat­ivi. La fiducia nel contesto viene incrinata dalle continue contraddiz­ioni in cui ci ritroviamo, alcune facilmente risolvibil­i («Perché non posso rischiare giocando a calcetto e devo rischiare mandando mio figlio a scuola? Perché la scuola è prioritari­a, punto»), altre molto più difficili da accettare («Perché dovrei rispettare un limite di inviti a casa, se per tornare in quella stessa casa mi tocca viaggiare ogni giorno su un mezzo di trasporto affollato?»).

Ecco, arrivati a ottobre ci aspettavam­o che il contagio fosse maneggiato un po’ meglio, ma le nuove misure, pur inevitabil­i a questo stadio, non rispecchia­no veramente quel meglio. Perfino noi, epidemiolo­gi dell’ultima ora su Facebook e Twitter, ce ne rendiamo conto.

Il tipping point

È la soglia oltre la quale le cose precipitan­o: è riconoscib­ile solo una volta superata, quando ormai è troppo tardi

Cambio di prospettiv­a

Se il procedere delle regioni in ordine sparso era deprecabil­e ad aprile, oggi sarebbe un segno di affidabili­tà

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Una donna a Mosca. In Russia ieri si è registrato il record di morti, 244, che portano a un totale di 23 mila vittime
(Kudryavtse­v/Afp) In strada Una donna a Mosca. In Russia ieri si è registrato il record di morti, 244, che portano a un totale di 23 mila vittime
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