QUELLE BUONE OPPORTUNITÀ CREATE DALLA MERITOCRAZIA
Economia e società Negli Usa spuntano critiche perché non sarebbe «giusta», ma è stata utile per milioni di giovani
«Eora la meritocrazia viene criticata» è un pezzo pubblicato su questo quotidiano in occasione della presentazione al festival dell’Economia di Trento del saggio «La tirannia del merito» di Peter Sandel, professore di filosofia politica ad Harvard. La critica non è una novità. All’inizio del nuovo secolo la meritocrazia è stata criticata da chi le ha dato un nome, il laburista inglese Michael Young, e le critiche sono poi esplose proprio dove è nata, ad Harvard e Yale. Il concetto di «merito» è sempre esistito ma l’idea della selezione dei migliori grazie all’istruzione (appunto «meritocrazia») era nata ad Harvard nel 1933, quando James Conant, il rettore, fece introdurre il test Sat (un test tipo Invalsi) per selezionare chi veniva ammesso e, assieme a borse di studio per gli studenti meno abbienti ma capaci, si proponeva di creare le «pari opportunità» di accesso alle migliori università americane per i migliori qualunque fosse il loro ceto famigliare. Le sinistre liberal americane l’avevano accettata con entusiasmo perché compensava la inevitabile diseguaglianza con le «pari opportunità» di accesso a una laurea eccellente che apriva le porte del successo nel mondo del lavoro. Dei dieci uomini più ricchi d’America, sette sono laureati alle Ivy League (e dei tre non laureati due sono dropouts di Harvard, Bill Gates e Mark Zuckerberg) e la maggioranza di loro proviene da famiglie non particolarmente ricche .
Anche se in ottant’anni le cose sono migliorate e alle università Ivy League oggi non vanno più solo pigri rampolli figli (maschi) di ricchi, ma giovani (uomini e donne) della classe media capaci e motivati, le critiche hanno ragione perché la meritocrazia oggi non è particolarmente «giusta». Alle università top sono ammessi prevalentemente quelli che Michael Young chiamava «i figli dello sperma fortunato», figli di genitori di reddito alto, anche essi laureati in università top, che non passano ai figli patrimoni e aziende, ma una miglior preparazione
dTitoli di studio alla difficile selezione. È così nata una nuova forma di aristocrazia, una «aristocrazia 2.0».
Il passaggio all’economia della conoscenza, tecnologia e globalizzazione la ha poi resa ancora meno «giusta» perché ha aumentato enormemente il «premio» alla meritocrazia: oggi gli imprenditori high tech, i Ceo delle multinazionali e i finanzieri di banche d’affari e fondi private equity (il famoso 0,1%) accumulano ricchezze impensabili nel secolo scorso.
L’autore del saggio presentato a Trento in questi giorni, Peter Sandel, ha ripreso queste critiche aggiungendo una nuova dimensione in gran parte legata alle elezioni negli Stati Uniti. I laureati vincenti della competizione meritocratica disprezzerebbero i perdenti e questi ultimi umiliati (soprattutto maschi bianchi non laureati) avrebbero votato in massa per Trump (il suo elettore target è un maschio bianco non laureato): la meritocrazia sarebbe così diventata fucina del populismo.
Comunque sia, se gli accademici americani critici della meritocrazia hanno ragione nel sostenere che la meritocrazia non è risultata così «giusta» come speravano i suoi sponsor di sinistra perché non ha creato le sperate «pari opportunità», gli stessi (in gran parte giuristi, filosofi e politologi) sottovalutano però quanto è stata ed è tuttora immensamente «utile» nel creare «buone opportunità» nell’economia per milioni di giovani. Spinti dal desiderio di migliorarsi grazie alla miglior laurea possibile, si impegnano nella competizione e nello studio per ottenere le competenze e i titoli per entrare nel mondo del lavoro in professioni intellettualmente qualificate e avere un buon reddito, spesso superiore a quello dei propri genitori. Hanno così rafforzato il capitale umano che si è rivelato utilissimo per l’economia della conoscenza e creato una classe dirigente comunque molto selezionata e istruita. Una vera e propria «meritocrazia di massa».
Succede non soltanto negli Usa, ma anche in Europa e in particolare in Asia dove il termine «meritocrazia» non lo conosce nessuno, ma milioni di giovani sud-coreani, cinesi, giapponesi si dannano per la selezione per le università migliori che per loro rappresentano un passaporto per un ingresso nelle varie Alibaba e Samsung. Tra
In Italia la selezione non è ben vista e la laurea, conseguentemente, ha poco valore
i giovani tra i 25 e i 34 anni, il 60 e il 70% dei giapponesi e dei coreani sono laureati contro il 48 e il 52% degli americani e inglesi e il 30 e 44% di tedeschi e francesi. In Asia l’incrocio tra la cultura confuciana che prevede che la classe dirigente sia la meglio istruita e la più virtuosa e l’economia della conoscenza sta creando capitale umano e economie vincenti nel nuovo secolo.
Tutto questo dovrebbe fare comprendere quanto il dibattito anti-meritocrazia nel mondo anglosassone sia poco rilevante per il nostro Paese dove la meritocrazia non è mai nata seriamente. Negli Usa nessuno si oppone seriamente alla selezione all’ingresso nelle migliori università, si dibatte come farla. In Italia la selezione non è ben vista e la laurea conseguentemente ha poco valore. In più mancano le grandi imprese che sono quelle che assumono i laureati. In conseguenza, nonostante il «diritto allo studio», i laureati sono pochi (27% ) e mal retribuiti. I giovani italiani si differenziano da tempo da asiatici, americani ed europei perché non credono che l’impegno serio nell’istruzione superiore sia il passaporto per una vita migliore. Così il capitale umano si impoverisce e l’economia ristagna.
Per tutto ciò, se da un lato bisogna proteggere i più deboli e fare sì che chi si merita di laurearsi possa farlo, rifiutare la meritocrazia — che vuole dire selezione, competizione e ricerca dell’eccellenza — significa la continuazione delle vecchie aristocrazie basate sulla ricchezza ereditata e di un declino economico che penalizzerà ancora di più i più poveri.
Meritocrazia.corriere.it