Corriere della Sera

Ana, il riscatto difficile di una ragazza diversa

Solferino pubblica «Dominicana» della scrittrice americana Angie Cruz. Qui ne presentiam­o l’incipit

- di Angie Cruz ( traduzione di Lucia Fochi)

La prima volta che Juan Ruiz si dichiara io sono una ragazzina di undici anni, pelle e ossa e senza tette. Sono mezzo addormenta­ta, i capelli crespi schizzati fuori dall’elastico e il vestito col davanti di dietro. Un fine settimana sì e uno no Juan e tre dei suoi fratelli arrivano dritti dritti da La Capital per fare la serenata alle ragazze di campagna in età da marito. Non sono i primi che si fermano qui e ci provano con me e con Teresa, mia sorella maggiore.

È sempre così, che le persone mi fissano, un po’ senza farlo apposta. Io sono diversa dalle altre ragazze. Per niente carina. Una bellezza curiosa, semmai, come se i miei occhi verdi fossero più brillanti, più di valore, da possedere. E per questo Mamá teme che se non fa piani per il mio futuro il mio destino sarà peggio di quello di Teresa, che ha già messo gli occhi castani su El Guardia, quello che sta di sorveglian­za al municipio, in centro.

Quella notte, la prima di tante, tre dei fratelli Ruiz parcheggia­no la macchina nel vialetto sterrato e si attaccano al campanello del colmado di Papá, come mandriani di vacche. Le strade sono buie sotto il cielo nuvoloso e senza luna. I cali di corrente possono durare anche quindici ore di fila. In passato ci sono stati dei furti di galline e nel nostro negozio hanno rubato due volte nell’ultimo anno. Per questo teniamo tutto sotto chiave, soprattutt­o dopo che hanno ucciso Trujillo con un colpo di fucile. Nella sua automobile! Dopo che è stato El Jefe per trentun anni! La cosa diverte Papá. Per tutta la vita ha dovuto guardare la foto di Trujillo con lo slogan: Dio in cielo, Trujillo in terra. Dif cile tratteners­i dal ridere, di fronte alla sua mortalità. Si vede che anche Dio ne aveva avuto abbastanza. Ma Trujillo non se n’è andato in pace. La Capital è nel caos. Un casino pazzesco. Nessuna legalità degna di quel nome. Piena di pazzi. Quelli che vengono dalla grande città ci guardano seri e ci dicono di stare all’erta. E noi ci stiamo, all’erta.

Mamá, Teresa e io ci schiacciam­o contro la casa mentre Papá va verso il buio col fucile imbracciat­o. I miei fratelli, Yohnny e Lenny, e le mie cugine, Juanita e Betty, dormono.

Siamo noi, siamo noi, grida Juan dal buio. Tutti conoscono i fratelli Ruiz perché fanno avanti e indietro da New York e tornano sempre con le tasche piene di dollari.

Dietro Juan, gli altri due fratelli agitano gli strumenti in aria e ridono.

Forza, venite avanti, grida Mamá. E così vengono a sedersi in giardino, con la birra in mano e parlano di New York, di politica, di soldi e di documenti.

Quando Juan mi fa la proposta è ubriaco. Sposami, farfuglia. Ti porto in America. Inciampa sui suoi stessi piedi e mi spinge contro la staccionat­a. Dimmi di sì, insiste col fiato bollente e il sudore che mi cola in faccia.

A Papá non interessa la politica, e non si fida di chi va in giro con un completo. Prende il fucile e Mamá si mette tra loro e ride, con quella sua risata che scopre tutti i denti e abbassa il mento verso il collo, poi svia lo sguardo civettuola. Afferra Juan per le spalle e lo rimette a sedere sulla sedia di plastica del giardino, insieme ai suoi fratelli, che hanno bevuto tutti troppo. Quando si siede il petto gli si richiude sulla pancia prominente e mascella, angoli della bocca, guance, occhi cadono tutti insieme: un clown triste. Juan mi fissa le ginocchia, che si stringono forte forte, come se nascondess­i lì un segreto per lui, da scoprire. I tre fratelli non potrebbero essere più diversi tra loro; stessi genitori ma facce e stature diverse. E aspettate di conoscere César, dice Hector. Indossano tutti il completo e si stringono a Juan come un’orchestrin­a su un palco. Gli occhi vitrei e rosa. Tutti appoggiati agli strumenti.

Questa canzone è per te, dice Juan a Teresa, che si rannicchia dietro lo sguardo attento di Papá. Juan però guarda sempre me. Teresa ha tredici anni ma ne dimostra venti; è nata scalciando alla grande prima del sorgere del sole. Fa ondeggiare la gonna di qua e di là, in attesa. Ma questo succede prima che El Guardia le bruci la possibilit­à di andarsene. Ramón, il più grande, strimpella la chitarra e Juan guarda i fratelli come per essere sicuro che le galline siano nel pollaio; poi, da vero animale da palcosceni­co, si alza, si gira e via:

Bésame, bésame mucho...

Canta la canzone con voce bassa, spessa, corposa e riempie il vuoto che ho nel petto. Un blocco di ghiaccio che si scioglie. La voce amplificat­a

È lì che capisco che un giorno la terra mi si aprirà sotto i piedi e Juan mi porterà via

Como si fuera esta noche la última vez Bésame, bésame mucho,

Que tengo miedo a perderte, perderte

después...

dal cielo buio e dall’immobilità della notte. Chiudo gli occhi e ascolto. Cos’è quello che sento? Il suo dispiacere? Il desiderio? La passione? Tutto quanto insieme? Quando finisce, Mamá e Teresa si alzano e battono le mani: un applauso sparso. Ancora! Un’altra! dice Teresa, senza rendersi conto che Juan sta cantando per me.

È lì che capisco che un giorno la terra mi si aprirà sotto i piedi e Juan mi porterà via. Le lacrime salgono. Non so come né quando, ma c’è un mondo ingordo che mi aspetta là fuori.

Ragazze, a letto, annuncia Papá con voce sonora da campanacci­o. Si appoggia il fucile sulle cosce, arrabbiato come non l’ho mai visto prima. Due delle sue sorelle sono state prese dai militari, quando Trujillo era ancora vivo.

Dobbiamo andare, dice Ramón, e si alza, lungo e secco come l’asta di una bandiera, sempre educato, sempre a scusarsi per i suoi fratelli più piccoli che non riescono a controllar­si quando bevono.

Prima di andarsene Juan si abbassa e mi guarda dritto in faccia. Io lo fisso negli occhi, come se avessi il potere di fargli paura. Lui fa il gesto di ritirarsi e poi improvvisa­mente fa un balzo verso di me e abbaia, forte e insistente. Bau. Bau. Bau. Io mi faccio indietro e mi allontano, e inciampo sul secchio di plastica che teniamo accanto alla porta per raccoglier­e l’acqua. Lui ride e continua a ridere. Il corpaccion­e si scuote tutto. Ridono tutti, tranne me.

Mamá fa la gentile e dice loro di venire ancora, che sono i benvenuti e che per le ragazze migliori vale la pena aspettare. Magari un giorno veniamo a mangiare nel vostro ristorante in città, dice Mamá, anche se sa benissimo che non andremo mai a La Capital, né tanto meno a mangiare in un ristorante.

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Angie Cruz (fotografia di Erika Morillo) ha 48 anni e insegna Letteratur­a inglese all’Università di Pittsburgh

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